Il 23 dicembre del 1987 scoppiava la faida di Gela, il racconto di un ex carabiniere

 
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Gela. Trentadue anni fa, come di questi tempi, Gela sprofondò nel baratro: un vortice di sangue e morte. Era il 23 dicembre, l’inizio di una faida mafiosa senza confini. Cosa Nostra e Stidda cominciarono una guerra spietata, che lasciò sul campo di battaglia, in poco più di tre anni, più di 100 morti ammazzati. Altrettanti furono i tentativi di omicidio. Sul piatto della bilancia, c’era il grosso fiume di denaro per il completamento della diga Disueri. Ma c’era anche una rivalità storica tra le due consorterie: le famiglie capeggiate da Giuseppe “Piddu” Madonia non avevano accettato la fuoriuscita di chi prima stava con loro, ci riferiamo ai “pastori”; e quest’ultimi,  sanguinari per eccellenza, non avevano accettato la leadership di chi prima li comandava. E fu guerra totale. In ogni dove ed in ogni luogo. “Il mattino del 23 dicembre 1987, nell’immediata periferia di Gela, all’interno di un cantiere sulla Statale 117  bis  per Catania, si verificava una feroce sparatoria nel corso della  quale venivano uccisi Orazio Coccomini e Salvatore Lauretta, titolari del cantiere stesso, mentre l’operaio Antonio Di Noto, rimaneva gravemente ferito. Subito informato della sparatoria e pur non essendo in servizio, accorsi sul posto procedendo di conseguenza a richiedere rinforzi al Comando. In sede di sopralluogo venne rilevata la presenza di numerosi bossoli di pistola e fucile che diedero l’impressione di trovarsi in un vero e proprio campo di battaglia. La presenza dei due morti, i cui nomi erano stati inseriti in un nostro primo rapporto giudiziario del marzo 1985 come facenti capo al clan “furmiculuni” della “stidda” (contrapposto a quello di “cosa nostra”), lasciava da subito supporre che la lotta tra le organizzazioni malavitose per l’accaparramento dei sub-appalti era ripresa in forma più spietata rispetto a quella di qualche tempo prima, a dimostrazione che tutte le regole erano completamente saltate”. A parlare é Domenico Resciniti, 69 anni, ex comandante della stazione dei Carabinieri di Gela ed attuale presidente della locale Associazione Nazionale Carabinieri, intitolata a Sebastiano D’Immé, medaglia d’oro al valore militare. “Il 23 dicembre del 1987 segnò a Gela l’inizio della feroce e sanguinaria guerra di mafia che terminò all’inizio del 1991 con il bilancio di 120 morti. La guerra di mafia raggiunse il suo apice con la cosiddetta “strage di Gela” del 27 novembre 1990 allorquando, in tre diversi agguati effettuati in città nel giro di mezz’ora, vi furono 8 morti e 11 feriti, tutti affiliati al clan Madonia. La “strage di Gela” diede adito ad una immediata reazione da parte dello Stato; infatti, il Ministro degli Interni Vincenzo Scotti dispose subito l’invio dell’alto commissario antimafia Domenico Sica per coordinare la risposta delle Forze dell’Ordine a quegli efferati eventi malavitosi; in quella circostanza  venne anche sancita l’istituzione del Tribunale di Gela, che fu inaugurato nel 1991 dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga”. E poi, cosa accadde? “Gli “stiddari” e i “mafiosi”, sia per mettere fine agli scontri sia soprattutto perché incalzati dalla risposta dello Stato, siglarono successivamente tra loro una “pax” mafiosa; una pace quindi che vide la collaborazione tra “Cosa Nostra” e “Stidda” nei principali settori criminali, con la divisione dei proventi in parti uguali. Il 25 luglio 1992, come ulteriore risposta dello Stato, iniziò l’operazione “Vespri Siciliani”, che si protrasse fino al mese di luglio 1998 e che comportò tra l’altro la presenza di militari dell’Esercito e dei Carabinieri provenienti dai battaglioni mobili di tutta Italia”. La guerra di mafia iniziata a Gela nel 1987 si era poi allargata. “Purtroppo si – continua – trasformandosi in una lotta di predominio sugli interessi illeciti gestiti dalla malavita, estendendosi anche fuori Gela, in particolare tra elementi della mala gelese e di alcuni centri attigui. Si sparava ovunque: in piazza, alla villa, negli esercizi pubblici, nelle strade buie e tra la folla. Una guerra che interessava anche altre regioni lontane dalla Sicilia, tra esse anche la Lombardia. Non a caso proprio nel capoluogo lombardo erano stati consumati gli omicidi di alcuni giovani gelesi trapiantati al Nord, oltre ad alcuni soggetti contigui ai clan  che avevano fornito appoggi e/o assistenza durante la guerra di mafia di Gela.  Un’azione dimostrativa molto eclatante, quasi a voler vendicare i morti del 23 dicembre 1987, arrivò puntualmente nel primo pomeriggio del 21 dicembre 1988 allorquando un nutrito gruppo di killer, armati di tutto punto, fece  irruzione nell’abitazione di Salvatore Polara in via Ducezio sparando numerosi colpi di arma da fuoco contro lo stesso e i suoi famigliari  mentre stavano consumando il pranzo. Nel corso della spedizione punitiva rimasero  uccisi lo stesso Polara, la moglie e due figli di 17 e 16 anni, mentre un altro figlio di appena 14 anni rimase gravemente ferito. Fu una strage vera e propria. Uno scenario pietoso fu quello di vedere i corpi esamini della moglie e dei figli del Polara, unico destinatario della mattanza, i cui mandanti ed esecutori sicuramente erano da ricercare nel “clan” avversario. La guerra tra  i clan  in lotta proseguì anche nel terzo anno consecutivo, cioè  il  22 dicembre 1989, sempre in pieno periodo natalizio, allorquando ignoti killer uccisero a Gela due fratelli di 33 e 25 anni, entrambi macellai”.

E quale fu la risposta delle forze dell’ordine?

“Con l’arrivo del 1990, galvanizzato dalla rassicurante e continua presenza del giovane Tenente Mario Mettifogo, all’epoca Comandante del Nucleo Operativo Radio Mobile, giunto a Gela in sostituzione di un suo parigrado, pur continuando a partecipare intensamente all’attivitá del reparto, venni trasferito alla Stazione di Gela, quale comandante.  Comunque, anche se da lì a poco avrei cambiato di reparto, proseguii la mia intensa attività investigativa affiancando il mio superiore nelle varie attività di indagini connesse al grave fenomeno mafioso, che nel corso degli anni aveva fatto assurgere la città di Gela alla ribalta della cronaca nazionale tanto che, anche a seguito dell’uccisione dell’innocente casalinga Grazia Scimè, in un quotidiano dell’epoca,  il giornalista Antonio Asaro così scrisse: “E Gela ridiventa Chicago. …Killer tra la folla: cinque feriti (4 sono donne)”.  Tutto fu compromesso da quel 23 dicembre del 1987, quando con l’uccisione dei boss Lauretta e Coccomini si aprì la guerra di mafia a Gela. L’esperienza da me accumulata in tanti anni di attività svolta nel comprensorio di Gela conferma la mia supposizione investigativa perché in una certa fase della guerra di mafia ho potuto constatare nelle cosche la massiccia presenza di giovanissimi “soldati” di mafia, mandati a uccidere e a morire. Non a caso all’epoca si scrisse di “baby killer” e di “baby vittime”. Giovani disadattati, figli di famiglie sempre più disunite e senza positivi modelli sociali di riferimento in una splendida città abbruttita dalla violenza”

Ha mai avuto paura?

“Ero perfettamente consapevole del pericolo che correvo ma non avevo paura perché, secondo il mio ”io”, il carabiniere che dimostra paura muore tutti i giorni. L’unico mio timore era che potessero colpire la mia famiglia. Speravo sempre che se qualche criminale avesse deciso di farmi danno si rivolgesse solo a me, lasciando da parte i miei cari. A casa, però, non ho mai fatto trasparire questa mia preoccupazione, mostrandomi sereno, sicuro e ottimista”

Con che spirito ha operato in quasi mezzo secolo tra le fila dei Carabinieri?

“Con umanità e non ho mai dimenticato i buoni consigli che mi sono stati dati, come quello del capitano Rosario Molica che ripeteva fino all’inverosimile la parola “Humanitas”, dicendo che tale valore etico era sempre stato una prerogativa di tutti i militari dell’Arma Benemerita”.

3 Commenti

  1. E grazie a lui la guerra finì…….. ma per favore ! che cosa ci sta raccontando la fiaba di Cenerentola con il lieto fine?
    Tutte le forze dell’ordine in quei tempi lavorarono sodo per cercare di sedare la guerra , fine , senza dimenticare tutte le vittime iniziando da Giordano .

  2. Mi complimento con le forze dell’ordine sempre e in ogni caso , le polemiche ,l”essere egocentrici e il sentirsi un eroe solo perché si faccia il proprio dovere penso non appartenga alla Benemerita la gente che millanta il chissà che….. appartiene ad altra categoria e questo purtroppo è il pensiero comune di tantissima gente.

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