La storia nella finzione. I casi di Eco e Yanagihara

 
0

Gela. In un tweet del 16 settembre scorso, Wu Ming Foundation, il collettivo di scrittori già autore di capolavori come “Q” (1999, con il vecchio pseudonimo di Luther Blissett) e “L’armata dei sonnambuli” (2014), ha annunciato che a ottobre celebrerà i trent’anni de “Il pendolo di Foucault” di Umberto Eco “riprendendo i fili del dibattito sul cospirazionismo (…), con una presentazione e un saggio ad hoc”. Si tratta di una grande notizia, perché mai come oggi “Il pendolo” è stato così attuale, dal momento che con libere elezioni l’elettorato italiano ha affidato le sorti del Paese a una classe politica in buona parte costituita da personaggi che sembrano usciti da quel romanzo, salvo che al Piano dei Templari hanno sostituito quello di altri cospiratori per il dominio del mondo. L’ironia del destino sta nel fatto che non possiamo nemmeno consolarci con il noto adagio secondo cui la storia si ripete due volte, prima come tragedia e poi come farsa, perché qui la storia comincia con una sanguinosa parodia romanzesca e finisce, trent’anni dopo, con una legislatura realissima e un paese sull’orlo della bancarotta.

Quel romanzo di Eco, mandato da Bompiani nelle librerie italiane il 4 ottobre del 1988, costituisce un evento epocale nella letteratura mondiale dell’ultimo Novecento, e non è un caso che sia proprio Wu Ming a ricordarcelo, visto che “Q”, quasi venti anni fa, fu un caso letterario così clamoroso che nacque subito la leggenda metropolitana che identificava il suo autore misterioso con quello del “Nome della rosa”. Era quella che oggi diremmo una bufala virale o una fake news molto seducente, e la sua resistenza in rete durò a lungo.

In questa sede vorrei invitare a riaprire il “Pendolo” per  prenderlo come pietra di paragone sull’uso della storia nella finzione narrativa, confrontandolo per contrasto con il caso lontanissimo rappresentato da un romanzo che in questi ultimi anni sta conoscendo un meritato successo, “Una vita come tante” (“A Little Life”, 2015) della scrittrice americana di origini hawaiane Hanya Yanagihara, pubblicato in italiano da Sellerio nel 2016.

I periodi del Pendolo

Nelle diverse occasioni in cui si è trovato a raccontare il proprio metodo di lavoro nelle vesti di romanziere, Eco ha sempre insistito sull’importanza dei vincoli posti dalla storia a tutti i livelli. Non si tratta naturalmente solo di non nominare mai le Americhe in un romanzo ambientato nel 1327, ma di badare anche alle più piccole sfumature. Certo, egli stesso metteva in bocca a un frate francescano del XIV secolo un pensiero prelevato da un trattato logico-filosofico pubblicato nel 1921, ma in quel caso si trattava di un ammiccamento al lettore colto per sorridere bonariamente con lui delle rimasticature di mistica bassomedievale presenti nell’opera di quel giovane filosofo viennese dei primi decenni del XX secolo. 

Tra molte altre cose, “Il pendolo di Foucault” racconta la vita di tre amici dagli anni Trenta al 1984, e ogni volta le loro vicende private sono poste accuratamente in una relazione molto stretta con la storia politica, del costume e della tecnologia, al punto che quest’ultima incide sulle stesse scelte narrative. Un esempio particolarmente vivido (cap. 3) si ha nell’episodio-chiave del rapimento di Jacopo Belbo a Parigi il 21 giugno 1984 mentre sta parlando da una cabina telefonica con l’amico Casaubon, che si trova in Italia. Ora, a rigor di termini, non sarebbe stato impossibile per Belbo avere a disposizione un telefono portatile e quindi sfuggire ai “Signori del Mondo” che gli danno la caccia, ma sarebbe stato alquanto forzato, perché in quel periodo quegli apparecchi erano molto costosi ed avevano ancora una diffusione assai limitata. Appena pochi anni dopo, invece, il rapimento di Belbo avrebbe richiesto modalità di svolgimento molto diverse, perché praticamente a nessuno, nell’era dei telefonini, può capitare di essere rapito mentre telefona da una cabina. Un altro esempio, ma se ne potrebbero fare decine, si trova nel capitolo 108. Belbo si trova su un treno per Bologna e legge i giornali, ma siccome è il 13 giugno 1984 il narratore ci fa sapere che la notizia del giorno è quella dei funerali di Berlinguer.

Tutto questo, naturalmente, non è casuale, perché la storia esterna reale interagisce inevitabilmente con quella interna fittizia, e ciò aiuta il lettore ad alimentare la propria percezione della verosimiglianza del racconto. Si tratta di un espediente cui ricorre qualsiasi narratore che voglia giocare sull’illusione di realtà, perché in tal modo i personaggi sembrano muoversi in un mondo possibile che risulta familiare al lettore.

Il tempo sospeso

Ben diversa è la scelta della Yanagihara. Sia chiaro: è diffusa anche la scelta opposta rispetto a quella appena illustrata e molti romanzi brevi si limitano all’essenziale tralasciando qualsiasi riferimento alla storia esterna. Ma “Una vita come tante” è un romanzo di ben 1091 pagine che racconta in particolare e nel dettaglio quarant’anni circa della vita di quattro amici, i quali vengono lasciati quando sono (o sarebbero) sessantenni. Ebbene, il lettore non ha qui alcuna possibilità di collocare storicamente in maniera certa questi sessant’anni circa, perché il romanzo non fornisce mai alcun aiuto in tal senso. L’azione si svolge in gran parte a New York e dintorni, ma ci sono tanti spostamenti non solo in altre città degli Stati Uniti, ma anche in altri paesi, come l’Italia, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, il Marocco, l’India, ecc. Non solo. Le strade di New York sono indicate con precisione ossessiva e il romanzo è pieno di precisazioni sui giorni della settimana, sui mesi dell’anno e su certe ricorrenze, come l’onnipresente Giorno del Ringraziamento, menzionato una quarantina di volte. Eppure, a fronte di tale cura in certi dettagli spaziali e temporali, non è mai citato chiaramente un solo anno del calendario, e solo rarissimamente (come nel secondo capitolo della prima parte o nel primo capitolo della quinta parte) si fa riferimento agli anni Quaranta, Sessanta, Ottanta e Duemila; ma ci si trova in contesti in cui si sta parlando di retrospettive pittoriche e fotografiche o della trama di un film.
Anche una scelta del genere ha le sue ragioni, perché il romanzo vuole scolpire vite esemplari (almeno una delle quali spettacolarmente tragica, quindi tutt’altro che “piccola” o “come tante”), quasi metafisiche, quindi ripulite da qualsiasi contaminazione con la storia. Ma si tratta di una scelta che si espone a rischi enormi, perché finisce per sfidare in alcuni casi la stessa logica elementare delle cose. Facciamo un esempio. Verso la fine dell’ultimo capitolo il narratore, che nel caso specifico è la “voce” dell’ottantenne Harold Stein, il padre adottivo del protagonista Jude St Francis, dice a un certo punto: “now JB is sixty-one and I am eighty-four”. Ma “ora” quando? Siccome il romanzo è uscito nel 2015 ed è chiaramente ambientato nel nostro mondo (ci sono i computer, i telefonini, internet, i messaggini e le e-mail), il lettore è autorizzato a ipotizzare che quell’“ora” punti grosso modo nella direzione della seconda decade del XXI secolo. Questa ipotesi, però, sembra smentita da un passo del terzo capitolo della quarta parte, laddove sembra che Fratello Luke sia in possesso di un computer portatile. Nella nostra ipotesi, infatti, quel momento dovrebbe collocarsi nei primi anni Sessanta, visto che Jude ha circa otto anni. Com’è possibile? Allora si potrebbe supporre che quell’“ora” sia da spostare in avanti di una ventina di anni, ma niente nel romanzo lascia supporre che esso si concluda in un futuro così lontano. La tecnologia digitale forse più sofisticata ad essere citata (siamo nel terzo capitolo della quinta parte) è il collegamento – via bluetooth? – del cellulare allo stereo dell’auto per far partire una playlist “stravagante”, ma chiunque abbia acquistato un’utilitaria negli ultimi anni sa che questa tecnologia è ormai alla portata di tutti, e non solo della coppia gay di ricchi americani di cui si parla in quel passo.
La scelta in questione, infine, pone anche un altro problema. Qualunque lettore è conquistato dal modo in cui viene scandagliata la vita dei quattro amici protagonisti, i quali, pur essendo immersi in un mondo riconoscibilissimo, sembrano del tutto sordi ai grandi avvenimenti storici che inevitabilmente attraversano e che tuttavia non vengono mai menzionati. Almeno uno, in particolare, grida vendetta proprio per la sua inspiegabile assenza: com’è possibile, infatti, che un avvocato in carriera, un artista affermato, un architetto di successo e un grande attore del cinema, tutti ben inseriti da adulti nella buona società newyorkese e tutti scandagliati anche nelle pieghe più intime del pensiero e delle emozioni, non siano stati nemmeno sfiorati dall’11 settembre?
Per tornare al “Pendolo” come metro di paragone, si pensi per contrasto a quanto sia decisivo, per capire la personalità di Jacopo Belbo, il modo in cui egli visse e “vide” la guerra da bambino, quando a undici anni assistette a uno scontro a fuoco tra nazifascisti e partigiani a Nizza Monferrato, e soprattutto quando, due anni dopo, suonò la tromba al funerale di due partigiani. Viceversa, per i protagonisti del romanzo della Yanagihara, persino il Vietnam è solo un luogo in cui recarsi per una vacanza.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here