Armi, droga e affari sporchi, Iannì e gli stiddari in Sardegna: l’inchiesta in un saggio

 
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Gela. A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, la stidda gelese avrebbe potuto prendersi buona parte di una delle zone della Sardegna, allora più economicamente prospere. E’ la tesi principale che esce da un saggio-inchiesta, scritto dal giornalista Paolo Matteo Chessa. In “Sulcis in fundo”, si ripercorre l’”epopea” criminale di Gaetano Iannì, e dei suoi uomini di fiducia, arrivati in Sardegna proprio sul finire degli anni ’80. A Gela, c’era il sangue della guerra di mafia scoppiata tra pastori e cosa nostra, così Iannì finì a Carbonia, nel Sulcis, con l’obbligo, impostogli dai magistrati, di non risiedere in Sicilia, Calabria e Campania. I gelesi, quindi, avrebbero iniziato a fare quello che già facevano a Gela.

Il patto con i sardi. Chessa tira fuori i rapporti con la banda di “Is Mirrionis” e il patto per far arrivare la droga in Sardegna da Milano, dove c’erano già i gelesi a controllare i traffici. Droga in cambio di armi, sarebbe stata questa l’intesa tra gli stiddari e i sardi.

La manovalanza stiddara. Nel lavoro di Chessa, inoltre, non si trascura la pista che portava agli appalti nello stabilimento industriale di Portovesme che, allora, garantiva lavori e cifre pesanti. Sotto traccia, inoltre, corre l’ipotesi che gli stiddari arrivati a Carbonia, ad un certo punto, si fossero messi a disposizione, quasi come manovalanza criminale, pronti ad agire su commissione. Gaetano Iannì, tra i capi della stidda che fece la guerra a cosa nostra, e i due figli Simon e Marco, lasciarono da parte le pistole e, dopo una scia di sangue quasi interminabile, iniziarono a collaborare con la giustizia.

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