Assenteismo in Comune, condanna a Di Blasi: “Accuse per incastrarmi dopo mie denunce”

 
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Gela. Si sarebbe allontanato dal luogo di servizio, senza chiedere autorizzazioni. Il giudice Miriam D’Amore ha condannato ad otto mesi di reclusione il dipendente comunale Saverio Di Blasi. La contestazione mossagli dai pm della procura emergeva da alcuni presunti episodi di assenteismo. I pm hanno formulato l’accusa di truffa. Al termine della sua requisitoria, il pm Pamela Cellura ha escluso responsabilità dell’imputato per uno degli episodi, ma l’ha invece confermata per gli altri, chiedendo la condanna ad un anno di reclusione. Di Blasi venne monitorato e gli approfondimenti partirono dopo la segnalazione di alcuni utenti dell’ufficio Urp, che non trovarono addetti in servizio. Il Comune, nel giudizio, era parte civile con l’avvocato Flavio Fiorenza, che ha chiesto la condanna del dipendente municipale. All’ente è stato riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni. Di Blasi, assistito dall’avvocato Salvo Macrì, ha reso dichiarazioni spontanee e ha descritto una situazione complessiva diametralmente diversa. I fatti si verificarono tra il 2012 e il 2013. In quel periodo, Di Blasi, che è anche presidente dell’associazione “Aria Nuova”, denunciò veri e propri pedinamenti, fino al tentativo di speronare la sua auto. Atti plateali che vennero segnalati alle forze dell’ordine. “Ero pedinato perché le nostre denunce contro il sistema di quel periodo andavano a toccare personaggi molto potenti – ha detto in aula – avevamo già capito cosa c’era dietro a quello che qualche anno dopo divenne il sistema Montante. Avevamo indicato fatti collegati all’allora presidente della Regione Rosario Crocetta e ad importanti funzionati di polizia. Chi mi pedinava venne anche fermato, ma poi non se ne seppe più nulla. Ci risultano che fossero poliziotti”. Il legale di difesa ha prodotto dati e tabulati delle presenze del dipendente comunale. Di Blasi ha spiegato che per anni venne sottoposto a mobbing, collocato in un ufficio sul lungomare Federico II di Svevia, “senza fare niente”. “Questo avvenne dopo le nostre denunce nei confronti dell’allora dirigente del Comune Renato Mauro – ha aggiunto – io non ero assegnato all’ufficio Urp. Sono stato dipendente del settore urbanistica e di quello della polizia municipale. Nella struttura sul lungomare mi collocarono in una specie di vecchio magazzino, senza neanche un computer. Non potevo fare nulla. Non c’erano servizi igienici ed ero costretto a recarmi in un vicino bar. Ho sempre timbrato regolarmente e recuperato le ore che non effettuavo. Non c’era un registro né dovevamo chiedere autorizzazioni per allontanarci. Spesso venivo chiamato a Palazzo di Città, anche dal comandante Giuseppe Montana, che mi chiedeva consigli su varie questioni. Ho sempre rispettato tutte le consegne. Hanno voluto incastrarmi”.

Una ricostruzione che Di Blasi ha supportato con documenti, prodotti anche prima della chiusura del dibattimento. La difesa ha ribadito l’assoluta regolarità della condotta di Di Blasi, che anzi come spiegato nelle conclusioni, sarebbe stato vittima di veri e propri provvedimenti punitivi. La preoccupazione dell’imputato per i pedinamenti è stata confermata in aula da suoi conoscenti, ma anche da altri dipendenti dell’ente. La difesa attende il deposito delle motivazioni per impugnare la condanna in appello.

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