“Beni e azienda non sono di Collodoro”, su confisca in appello riaperta istruttoria

 
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Gela. Il sequestro risale a tre anni fa e furono i carabinieri del Ros di Caltanissetta a mettere sotto chiave beni immobili, conti corrente e un’azienda edile, che secondo l’iniziale ipotesi sarebbero stati riconducibili al cinquantottenne Carmelo Collodoro, ritenuto vicino al gruppo locale di Cosa nostra. L’ammontare complessivo si sarebbe aggirato intorno agli ottocentomila euro. I giudici nisseni del tribunale delle misure di prevenzione, in primo grado, hanno disposto la confisca, accogliendo quanto indicato anche dai pm della Dda. Secondo i magistrati, quei beni sarebbero stati frutto di presunti capitali illeciti reinvestiti. Una tesi che i legali dei familiari di Collodoro hanno respinto. Sono stati coinvolti nel procedimento. Per i legali, azienda e beni sarebbero di esclusiva proprietà dei familiari e il cinquantottenne non avrebbe mai avuto un ruolo nella gestione e negli investimenti. Il provvedimento di confisca è stato impugnato in Corte d’appello. I giudici di secondo grado, su richiesta del legale Giuseppe Condorelli, hanno riaperto l’istruttoria. Sono state ammesse diverse testimonianze. Sono finalizzate, secondo quanto spiegato dalle difese (i familiari sono rappresentati anche dall’avvocato Paolo Testa), a far emergere che Collodoro non avrebbe mai avuto alcun ruolo nell’azienda. I beni non gli apparterrebbero.

Il cinquantottenne, di recente, è stato coinvolto nell’inchiesta “Exitus”, per presunti legami con il boss sessantenne Salvatore Rinzivillo. Il gup del tribunale di Caltanissetta ha disposto, per la sua posizione, la trasmissione degli atti a Catania. Sulla vicenda della confisca, nuovi testimoni verranno sentiti la prossima settimana.

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