Luca, infermiere di 26 anni, racconta la sua vita in un ospedale di frontiera del Nord

 
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Pavia. Non si definiscono eroi ma semplici servitori di un sistema sanitario al collasso, travolto dall’epidemia del Coronavirus. Lui è Luca, 26 anni, nativo di Caltanissetta, infermiere professionale. Presta il suo operato in un ospedale definito di frontiera, in una delle regioni del Nord Italia più colpite dal diffondersi dilagante del fenomeno. È qui da un anno e mezzo; prima ancora era stato in Toscana. Lo incontriamo al triage. Guanti, mascherina, camice, occhiali: tutto l’occorrente per evitare qualsiasi tipo di contagio. Sembra che lavori per la Scientifica. O sembra sul set della serie televisiva Csi. Ma è tutto vero, purtroppo. Manteniamo la distanza di sicurezza di un metro, così come disposto dai nuovi decreti. Ed entrambi ci parliamo attraverso le mascherine in dotazione. Le nostre parole sembrano troncate. Il loro suono é diverso rispetto al solito. È come una pentola a pressione pronta ad esplodere. Ė visibilmente stanco. Ma felice. Felice di avere contribuito anche nelle scorse ore ad offrire il suo contributo per una giusta causa. Una causa nazionale. Imprevista e per questo ancora più difficile da affrontare. Ed arginare. E sconfiggere, se si può. “Noi – dice – facciamo di tutto per rendere meno traumatico quanto accade. Chi arriva al pronto soccorso, lo fa perché accusa un malore e adesso, in particolar modo, anche un semplice raffreddore può destare sospetti. Assieme ai miei colleghi – aggiunge – chiedo al paziente che sintomi accusa, da quanti giorni si trova in quelle condizioni. Domande dalle quali si attendono risposte veritiere, senza alcuna reticenza. Perchè – riferisce Luca – a volte ci si nasconde dietro ad un vero e proprio problema, per paura di essere classificati come contagiati e contagiosi”.

L’epidemia galoppa, purtroppo e le zone rosse si allargano a macchia d’olio. “Di persone che accusano dolori ne giungono tantissime. Un vero e proprio stillicidio. A noi – aggiunge – il compito di sapere gestire la situazione, non allarmandoli e non creando panico. Perchè il vero virus è il panico. Se si diffonde, non riesci più a gestirlo”. Ha mai avuto timore per la sua incolumità, considerato che quasi giornalmente sta a contatto con persone che, probabilmente, sono portatori del Covid 19? “Cerco di prendere tutte le precauzioni del caso – dice – e mi attengo al regolamento”. Si poteva fronteggiare l’emergenza e come? “Quando si è venuti a conoscenza del primo contagiato in Italia – riferisce – sarebbe stato opportuno, fin da subito, attuare una quarantena per tutti, nessuno escluso. In quel caso, avremmo avuto un quadro più chiaro di quanto stava accadendo, risalendo alla catena umana. Adesso é difficile, anzi impossibile. Forse, inizialmente, la diffusione del virus é stata sottovalutata”. La sua vita è cambiata? È stata stravolta? “In ambito sanitario si – continua -. Rincorriamo le emergenze continue. Non hai il tempo di controllare il primo paziente, che ne arriva subito dopo un altro. E poi un altro ancora”. Loro, gli infermieri rappresentano le braccia dei medici. Sono proprio loro che mettono il respiratore sul viso delle persone positive al Coronavirus. Sono le persone più esposte al rischio di contrarre l’epidemia. Ma il contatto diretto con i pazienti è una prerogativa della professione infermieristica. “Il rischio c’è ed é inutile negarlo. Ma finora – sottolinea Luca – abbiamo trovato pazienti in grado di reagire al fenomeno, consci che il problema dovrà essere superato. Tutti insieme. Bisogna solo sapere aspettare. E tranquillizzarli. E tranquillizzare anche i parenti che attendono buone nuove all’esterno dell’ospedale”. E quando si tratta di comunicare un esito positivo, come ci comporta? “Con la massima trasparenza, rimarcando che il sistema sanitario farà di tutto per rimettere il paziente in sesto”. Attualmente nel presidio ospedaliero in cui opera Luca ci sono 15 pazienti positivi dei sessanta registrati. Hanno dai 35 ai 55 anni. “La situazione é monitorata, senza sosta alcuna”. Luca ha avuto la vita lavorativa stravolta, dall’oggi al domani. E la sua vita sociale? “Se vado al bar – chiosa – e sanno che sono un infermiere, si allontanano oltre il metro di distanza…come se fossi un untore”.

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