Diciannovesimo capitolo – Attentato in Vaticano

 
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L’aeroporto di Milano Linate era colmo di persone in attesa di imbarcarsi ai voli del terminal nazionale, disposti in fila al check-in.

Muhammad  Al Said e i cinque complici aspettavano di vidimare con lettura elettronica i biglietti, noncuranti dei controlli sui documenti apparentemente originali che quattro mesi prima erano stati rilasciati ai cittadini arabi e nordafricani dal comune tedesco di Francoforte, dove contavano dell’appoggio di altri mujaheddin.

Al banco della compagnia di bandiera  il giovane  e i terroristi, uno ad uno e vestiti da europei eleganti in giacca e cravatta, confusi agli altri passeggeri che si affrettavano a effettuare il check-in, dichiararono di avere solo il bagaglio a mano o di esserne senza.

La giovane e graziosa hostess italiana li informò che l’imbarco era al gate numero venti; mancavano quaranta minuti alle otto e trenta.

I passeggeri lasciarono l’area di ricevimento delle compagnie aeree e si recarono  ai controlli per accedere all’area d’attesa degli imbarchi dei voli.

Al controllo Muhammad fu invitato a ripassare  sotto il metal detector, poiché un suo bracciale d’argento face suonare l’allarme e attirò l’attenzione dei controllori addetti ai servizi di prevenzione e di sicurezza aeroportuali, mentre il suo bagaglio fu depositato sul nastro e ispezionato ai raggi X, dove l’addetto al monitor, uno stanco sovrintendente della polizia di stato, rilevò  i cellulari e  gli accessori per le batterie, senza destarsi alcun sospetto nelle zone delle cerniere metalliche, dove dai terroristi erano state nascoste  sei sottili, lunghe e affilate lame, i cui intarsi e disegni richiamavano quello parallelo delle robuste cerniere del borsone.

Il giovane egiziano superò i controlli, ritirò il suo bagaglio a mano e si avviò  al gate numero venti, accomodandosi nella grande sala d’attesa, aspettando seduto i suoi compagni per l’imbarco del volo, del quale un’addetta della compagnia di bandiera annunciò  più o meno quindici minuti di ritardo.

Anche gli altri cinque uomini dal commando di kamikaze passarono indenni i controlli e, guardando avanti, si diressero vicino al figlio del loro capo al quale era stato concesso l’onore di guidare l’azione suicida.

Il tempo trascorse lentamente; la tensione sui messaggeri di morte fu forte, terribile.

Il  loro sguardo  era assente, proiettato in avanti, lontano.

Avevano l’età media di venticinque anni, il più giovane era il figlio di Safyra, appena diciottenne,  e la morte non li spaventava. Conoscevano la loro sorte di strumenti della Jihad  e credevano, con le preghiere, il digiuno e le azioni, di essere stati purificati dai loro peccati: il paradiso li attendeva.   

Il volo AZ 347R21 fu chiamato e alle ore nove e dieci iniziò l’imbarco di tutti i passeggeri, ai quali, dopo  il veloce controllo dei documenti di identità e della corrispondenza dei nomi dei passaporti con quelli indicati nei biglietti, furono fatti transitare dalle hostess in servizio al gate verso il bus, che fuori li attese in pista per condurli vicino le scale dell’aeroplano. 

Il comandante dell’aeromobile invitò tutti i passeggeri ad accomodarsi nelle poltrone, di allacciare le cinture di sicurezza e di rivolgersi alle assistenti di volo per ogni cosa.

Muhammad prese posto nella poltrona numero trentaquattro  C, lato corridoio, e nel sistemare il suo bagaglio a mano negli appositi spazi si accorse che le sue mani erano sudate e che gli tremavano, mentre il cuore  batteva forte, spezzandogli il fiato.

Anche gli altri uomini presero posto nei sedili prenotati, e rimasero seduti nelle poltrone ai lati del corridoio.

Il comandante annunciò di essere pronto a decollare, le condizioni meteorologiche del giorno erano buone, l’arrivo era previsto  a Roma Fiumicino quarantadue minuti dopo.

I motori del Boeing 747 rullarono, e lentamente l’aeroplano raggiunse la pista di decollo indicatagli dalla torre di controllo; poi iniziò a percorrerla veloce, raggiungendo i duecentocinquanta chilometri orari  e, staccando da terra,  prese quota in direzione sud.

Erano i minuti che decisero il destino dei sei kamikaze,  dei centonovantasette passeggeri che si recavano a Roma e dei sette uomini dell’equipaggio.

Intanto, Marwan aveva viaggiato di notte lungo l’autostrada del Sole, in direzione sud, e nell’autogrill di Roma Casilina lo aspettavano altri complici, con i quali entrare in azione compiendo l’attentato contro palazzo Chigi, sede del premier, colpevole di partecipare attivamente alla coalizione degli alleati ancora presenti in Iraq.

Era difficile raggiungere il palazzo del governo, in pieno centro storico della città, ma il piano era stato preparato e studiato attentamente, poiché lì vicino, a meno di trecento metri, i terroristi avevano il basista e, due a due, avrebbero prelevato da un grande garage privato di via Ludovisi le tre autovetture con i contrassegni e i colori del comune di Roma, imbottite di un potentissimo tritolo al plastico; poi, camuffati dagli abiti degli operai di una nota società capitolina municipalizzata,  si sarebbero diretti al palazzo del governo, adiacente a piazza della Colonna.

Il sadico Marwan Al Said, con un telefonino si era riservato il compito di coordinare l’azione omicida dei sei kamikaze e avrebbe assistito con i suoi occhi, sia pure da lontano, all’impatto delle autovetture contro l’obiettivo politico scelto.  

Poco distante, a quasi un miglio, lasciati gli uffici del Ministero degli Interni, dove riferì il contenuto del messaggio di Safyra e i suoi sospetti sul dirottamento di un aeromobile, Fabrizio si recò a palazzo di giustizia, presso la procura della repubblica di Roma.

Il solo pensiero che l’azione distruttiva potesse essere portata a termine lo fece stare male e l’adrenalina gli circolò in tutto il corpo, da cima a fondo.

Non era sicuro che le informazioni rassegnate all’intelligence italiana e al signor ministro dell’interno sarebbero servite a sventare l’attentato, ma per Dio, programmare la movimentazione di una task force  in ogni aeroporto italiano situato ad una latitudine maggiore rispetto alla capitale, con le teste di cuoio  ed i reparti speciali della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza,  che cinque a cinque, avrebbero dovuto imbarcarsi  in ogni volo in partenza, diretto negli scali nazionali e internazionali, era un’operazione di polizia titanica.

Il date base del ministero dei trasporti  comunicò a quello dell’interno che, dalle ore otto e quaranta  fino a mezzogiorno, partivano dagli aeroporti dell’Italia settentrionale ottocentotredici voli nazionali, duecentoquattro internazionali e novantuno voli intercontinentali; erano più di millecento voli e iniziare a imbarcare più di cinquemila agenti scelti fu impossibile.

Forse era necessario bloccare ogni partenza.

Si decise intanto, con la priorità assoluta e senza creare gli allarmismi, di avvisare i comandanti degli aeromobili che erano già in alta quota della possibilità di un dirottamento. 

Il premier in persona, informato dal ministro, ordinò di agire su più opzioni, ma fermare tutti i voli significava gettare nel panico i passeggeri, paralizzare il traffico aereo e isolare la nazione; poi, non c’erano elementi o indizi certi che i terroristi islamici fossero riusciti ad imbarcarsi.

Subito dopo, arrivarono nella sala operativa del ministero dell’interno i dati degli screening sugli imbarchi sospetti e si cambiò subito strategia.

Sul volo Milano-Roma delle nove e quaranta c’erano cinque passeggeri che, seppure muniti di regolari documenti rilasciati dalle autorità tedesche, destavano un fondato allarme.

Occorreva impedirne la partenza, oramai però fu tardi;  da ventuno minuti l’aeromobile della compagnia di bandiera, il Boeing AZ347R21, aveva lasciato lo scalo milanese e si trovava in volo, diretto verso la capitale.

Si decise di allertare la torre di controllo dello scalo milanese, la quale si mise in contatto con il comandante dell’aereo, avvertendolo dell’ipotesi di sospetti terroristi a bordo.

Nel frattempo Fabrizio giunse nella stanza della sostituto procuratore Lorella Alfieri, restando sgomento.

Un blitz della polizia giudiziaria in una villetta ai castelli romani, aveva individuato l’ultimo covo dei terroristi e sequestrato del materiale interessante e delle fotografie  dai quali il procuratore capo ritenne certa l’ipotesi che l’anfiteatro del Colosseo fosse l’unico vero obiettivo del criminale Marwan Al Said.

La notizia era stata diffusa a tutte le autorità e l’allarme rosso sull’aereo in volo fu immediatamente declassificato.

L’avvocato Berti, non appena apprese dalla giudice requirente delle straordinarie misure di sicurezza prese attorno al Colosseo, cingendo la zona di controlli e barriere per un raggio di seicento metri, fino a impedire a chiunque di avvicinarsi, andò su tutte le furie, osservando che Marwan Al Said sapeva di essere braccato e di certo aveva depistato gli inquirenti: “le sue intenzioni sono  altre, e sono pericolosissime. Si tratta certamente di un depistaggio; maledizione”.  

La giudice ebbe subito l’impressione che le osservazioni di Fabrizio fossero intelligenti e interessanti, confermando l’ira di Fabrizio per la comunicazione del cessato allarme rosso all’aviazione civile.

La sua analisi aveva lo spirito giusto; Marwan Al Said era un fondamentalista islamico al quale interessava colpire il potere politico ed economico di un fidato alleato degli Stati Uniti d’America, al contempo era pronto a dare una lezione all’intero mondo occidentale; organizzare un attentato solo all’Anfiteatro riduceva la caratura criminale della cellula terrorista di Al Qaida in Italia e il clamore che intendeva raggiungere.

Ad un tratto, mentre l’avvocato conferiva sull’argomento con il magistrato, avvisandola della necessità di dovere informare il  governo, entrò nell’ufficio della giudice requirente il dottor Dario Gaymonat che la salutò  e, con il passo calmo e deciso, prese posto nella sua scrivania.

Il suo sguardo era arrogante, come se fosse consapevole di giocare in casa.

Si rivolse alla dottoressa Alfieri con lo sguardo duro, quasi scortese, domandandole  le ragioni della presenza dell’avvocato Berti in un’area del palazzo riservata solo ai magistrati e interdetta al pubblico non autorizzato; aggiunse sgarbato se il legale stesse intralciando il suo lavoro.

“Credo che l’avvocato debba immediatamente uscire da quest’ufficio”, tuonò forte.

La donna non riuscì a prendere di pugno la situazione ed a difendere Fabrizio.

Si sentiva ancora soggiogata dal carisma del procuratore ed era meglio evitare di discutere eccessivamente, però giustificò il legale, rispondendogli che incontrarlo e cercarlo per lei era così naturale, costruttivo ed utile; anche per le indagini in corso.

“La nostra collaborazione mira ad uno scambio di informazioni ed esse non escono da questa stanza”, puntualizzò la donna.

“Forse non è stato l’avvocato Berti a metterci sulla strada giusta?”, continuò a riferire impacciata, mettendosi di fianco vicino all’avvocato, come se implicitamente avesse cambiato il campo di gioco.

“E’ importante lavorare insieme per la sicurezza nazionale e della città di Roma”, precisò la sostituto procuratore al suo capo, ritrovando lo smalto ed il carattere.

L’avvocato, con il sangue che gli era salito negli occhi e cercando lo scontro fisico con il procuratore, si sentì offeso e parte in causa, domandando a Lorella, cosa pensasse di fare.

“Vuoi stare a sentire questo vecchio despota?” implorò Fabrizio

“Ti consiglio di buttarlo fuori da questo ufficio”, le comandò sicuro il giudice più anziano.

“Credo che dovreste smetterla; sono talmente confusa…”

“Non devi esserlo”, replicò deciso l’avvocato, invitandola a ribellarsi al capo negletto ed incompetente, che si mascherava dietro l’apparente aria di gentleman, mentre altro non era che un uomo miope, immaturo ed ipocrita, un donnaiolo da strapazzo al quale non interessava molto salvare delle vite umane.

Il procuratore, ad ascoltare quelle parole, andò su tutte le furie, minacciandolo di querele e di ritorsioni, e poiché l’atmosfera era incandescente, prima che ci fosse uno scontro fisico tra i due uomini che stavano agitandosi, la giudice, conoscendo anche il carattere irruente di Fabrizio, corse nella segreteria penale a richiamare l’attenzione del personale di sicurezza, al fine di porre fine alla diatriba.

Occasione mai fu così propizia. 

Fabrizio, puntando lo sguardo, si disse soddisfatto ad essere stato lasciato solo con Dario, scrutandolo pieno di rabbia e dicendogli che lui era lì, pronto a fargliela pagare per il male che aveva fatto alla donna.

“ Sei in gabbia”, gli pronunciò.

Dario sbiancò.

Intuendo il pericolo, con lo scatto repentino cercò di raggiungere la porta e trovare riparo nel corridoio, ma le mani di Fabrizio, come due ferree morse, bloccarono il braccio  destro del fuggitivo che non appena si girò verso il giovane fu raggiunto prima al viso, poi nello stomaco, da alcuni potenti pugni che lo fecero barcollare ed  infine cadere inerme sul pavimento, come un sacco vuoto, portandosi con sé a terra la stampante del personal computer dell’ufficio ed alcuni fascicoli della segreteria, poggiati sul piccolo tavolo a lato dell’ingresso.

“Sei un verme. Non aspettarti che ti spacco la faccia; non meriti nient’altro”, gridò il giovane al concorrente disteso a terra, con voce grintosa, piena di collera, muovendogli la testa con il suo piede e simulando di calpestarlo.

Poi Fabrizio uscì dall’ufficio prima che la dottoressa Alfieri e l’assistente giudiziaria ritornassero nella stanza; incrociandoli in corridoio, il penalista disse loro di scusarlo: veloce, lui correva al bar ad ordinare dei caffè.

“Il buon procuratore  è così soddisfatto della mia offerta di andare a prendere dei caffè bollenti al bar tanto che ha deciso di starsene in ufficio ad aspettare tranquillo, steso al tappeto”, disse loro compiaciuto della sua bravata.

Uscendo dalla procura l’avvocato si sentì un uomo diverso,  soddisfatto, consapevole di avere impartito a Dario una lezione che questi non avrebbe dimenticato, felice di avere vendicato la ragazza che per due anni era stata la compagna della sua vita.

“Ora starà  in lei reagire e alienarsi dal collega despota e invadente; altri non  è che un arrogante latin lover nonostante i suoi anni siano vicino ai sessanta”, pensò.

Il giovane uscì dall’enorme edificio giudiziario, indirizzandosi verso palazzo Chigi,  e pensò molto sia su quanto era capitato poco prima, sia sulle confidenze che alcuni mesi prima gli ebbe a riferire una sua cliente circa le tendenze sessuali sadiche del procuratore; aveva ritenuto che quelle confessioni fossero solo delle dicerie, ma accidenti, se allora le avesse riferite a Lorella forse l’avrebbe  messa in guardia; così facendo però rischiava di violare il proprio segreto professionale, nonché di alienarsi le simpatie della sua donna, che all’epoca del fatto non gli avrebbe creduto e, certamente, avrebbe preso  le difese di Dario Gaymonat, l’onesto e apprezzato collega, l’integerrimo procuratore della repubblica presso il tribunale di Roma.  

Ora sapeva che era tutto vero, che la cliente, una giovane e avvenente ragazza madre dell’Argentina, gli aveva raccontato la verità; eppure l’avvocato non aveva fatto nulla per interrompere l’amicizia professionale della sua donna con il procuratore.

Avrebbe dovuto spiegarle di stare attenta, di non fidarsi di quell’uomo, ma non lo fece.

Sentendosi in colpa, si accorse che, per tale omissione, lui era stato un debole e forse, aveva dato il suo contributo alla fine del loro amore.

Intuì che la verità, qualsiasi verità, ha sempre un costo: lui non doveva temere di non essere creduto dalla ragazza.

Mentre era alla guida dell’autovettura, diretto al palazzo del governo, sentì l’esigenza di sfogarsi e di parlare con qualcuno.  Prese il cellulare e telefonò ad Olga, raccontandole l’accaduto.  Non le nascose di sentirsi sollevato dai complessi che s’era tenuto dentro, ma osservò che per lui non era stata una semplice voglia di vendetta contro Dario: era una questione personale contro colui che  gli aveva remato contro, calpestandogli la dignità.

Olga raccomandò di stare attento, confidandogli il suo strano presentimento: qualcosa di grave poteva accadergli e lo pregò con tutta se stessa  di non esporsi eccessivamente.

Pochi minuti dopo Fabrizio raggiunse palazzo Chigi; il Premier in persona l’aspettava nell’ufficio presidenziale.

L’avvocato lasciò la sua autovettura in un parcheggio autorizzato, fuori dall’isola pedonale antistante gli uffici governativi e si diresse a piedi verso l’edificio.

La tensione era massima e aveva tante cose da riferire al presidente.

Il palazzo del governo era pieno di persone, in un via vai dagli uffici di presidenza a quelli di rappresentanza, intenti nelle più disparate attività amministrative e burocratiche, uomini in giacca e cravatta dall’aria confusa intenti a raggiungere gli uffici, ad uscire dalle stanze, che si muovevano con i passi veloci ed automatici.

Un minuto dopo il suo ingresso nell’edificio, l’avvocato Berti raggiunse la stanza del premier, il quale era in riunione con il gabinetto di crisi  e con i signori ministri dell’interno e della difesa, per far fronte alle minacce ed ai pericoli che erano stati segnalati anche dai servizi segreti.

Fabrizio Berti si unì agli uomini dello staff presidenziale e al presidente stesso, osservando di essere sicuro che Marwan Al Said si trovasse nella città di Roma, pronto a colpire un obiettivo che non fosse il Colosseo,  come paventato all’esecutivo dal diligente procuratore della repubblica, ma che rappresentasse le istituzioni od il governo stesso.

Il terrorista di notte aveva lasciato il covo lombardo per recarsi in una località allo stato sconosciuta, probabilmente da individuare nella città eterna; ogni traccia, ogni indizio lo riconduceva a Roma, mentre un altro commando, diretto dal figlio, agiva su un obiettivo differente; di questo Fabrizio se era certo.

Il Ministro dell’interno, informato dai suoi uomini, immediatamente diede l’ordine di interdire qualsiasi transito attorno alle sedi istituzionali più rappresentative, dunque dei palazzi Madama, Montecitorio, del Quirinale e della stessa sede del governo, informando telefonicamente il capo dello stato degli ultimi sviluppi, riferendo ai presenti di sentirsi sotto assedio: un aeromobile stava sorvolando le acque dell’alto Lazio e dei caccia militari F 16 dell’aviazione italiana avevano lasciato la base operativa del principale aeroporto militare della Toscana, ponendosi sulla sua scia di navigazione e al momento distanti solo trentadue miglia dall’aereo di linea, pronti  ad intercettarlo  e ad abbatterlo.

Le torri  di controllo e le autorità civili e militari avevano perso il contatto con il comandante dell’aereo di linea Milano Linate  – Roma.

Nei radar si osservò che l’aeromobile proseguiva nella sua rotta, con una velocità superiore a quella di crociera,  diretto sul centro abitato di Roma.

Il presidente, i ministri e i rappresentanti degli stati maggiori della marina, dell’aviazione militare e dell’esercito convennero della necessità di intercettare l’aereo oramai vicinissimo alla periferia romana ed imporgli di cambiare rotta; diversamente, sarebbe stato abbattuto.

Era scattato il codice “Renegade”.

Si convenne che l’ordine di abbattimento, se del caso, sarebbe stato dato dal premier in persona.

All’interno della sala operativa del gabinetto di crisi, mentre gli uomini politici e quelli con le stellette discussero animatamente e Fabrizio ascoltava loro gelido ed impotente, si sentì un boato provenire dalla piazza Colonna antistante l’edificio dell’esecutivo.

La deflagrazione fu così terribile da far tremare le mura del possente palazzo che fu dei Chigi, ed un forte vento ruppe i vetri delle sale, gettando all’aria migliaia di fogli di carta e quant’altro potesse essere trascinato dallo spostamento dell’aria, portando il panico.

Inizialmente non si riuscì a capire cosa fosse accaduto; il boato proveniva fuori dall’edificio.

Subito alcuni uomini del governo, il premier e lo stesso Fabrizio scesero nell’atrio del palazzo per verificare l’evento: un’autovettura non identificata con a bordo due uomini aveva violato la zona  d’interdizione al traffico stradale e s’era diretta veloce verso la sede del governo, era stata intercettata dalla forze di polizia ed attinta da numerosi colpi d’arma da fuoco, fino a esplodere poco prima di raggiungere la porta principale della sede del governo.

All’improvviso, mentre il premier ed  il ministro dell’interno  sulla piazza antistante Palazzo Chigi verificavano i danni ed impartivano agli ufficiali del cordone di sicurezza l’ordine di interdire a qualsiasi veicolo o persona non identificata il transito nei pressi di tutti i palazzi governativi e punti sensibili della capitale, si sentì avvicinarsi il rombo dei motori e gli stridii delle gomme di altre due autovetture che velocemente si diressero sulla stessa piazza, inseguite dalle volanti della polizia a sirene spiegate.

Istintivamente Fabrizio, si lanciò sul premier, afferrandolo ad un braccio e strascinandolo all’interno della porta principale del palazzo, quando subito dopo due nuovi boati di inaudita potenza squarciarono i rumori e la confusione che s’era creata  su piazza Colonna.

Una nuvola d’aria calda, simile a una forza d’urto alla quale è impossibile resistere, squarciò le autovetture della polizia poste all’angolo di via del Corso e spazzò via ogni cosa, inghiottendo  anche le figure del presidente del consiglio e di Fabrizio che gli fece scudo, scaraventandoli a terra, all’interno dell’androne dell’edificio.

Il panico e la desolazione scesero nei luoghi dell’attentato, mentre si levarono le invocazioni e le urla che provenivano dai quattro lati della piazza, e le sirene delle forze dell’ordine e dei soccorsi si fecero sempre più vicine ed insistenti.

A Fabrizio che aveva tentato di salvare il presidente, riuscendo nell’impresa, fino a trascinarlo poco prima delle esplosioni nell’androne dell’edificio, non parve affatto vero di essere riuscito a fargli da scudo; e mentre cercò di rialzarsi, capì che gli mancavano le forze.

Gli venne meno il respiro, le sue gambe non riuscirono a sollevarsi e le palpebre furono così pesanti che il mondo circostante gli girò attorno sino a che, d’un colpo,  gli scomparve.

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