Diciottesimo capitolo – Attentato in Vaticano

 
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Mancavano due giorni all’11 Marzo.

Il sei dello stesso mese gli Stati Uniti d’America avevano attaccato militarmente l’Iran  e  il Golfo Persico era una polveriera pronta ad esplodere.

La diplomazia mondiale ancora una volta era fallita nella mediazione a risolvere pacificamente  le controversie del medio oriente e l’ONU si sentì impotente più che mai a fermare l’avanzata dei tanks statunitensi, sbarcati nel golfo o provenienti dal confine iracheno dello Shat El Arab.

Intanto  le città sciite  e sunnite dell’antica Persia venivano punite dagli eserciti dell’armata anglo-americana per la loro debole resistenza all’avanzata delle truppe d’occupazione.

In solo tre giorni di continui, ininterrotti bombardamenti degli aerei e della flotta degli alleati, le principali città sciite si erano arrese o vivevano nell’anarchia, in preda ad una guerra civile tra gli stessi sciiti e all’interno delle altre compagini etniche e confessionali del popolo persiano.

Dopo il conflitto in Iraq, carico di morti, tensioni ed errori, a pochi giorni dall’attacco contro un’altra nazione dell’impero del male, fu evidente un’agghiacciante verità.

I soldati americani volevano già andarsene e in patria emergeva con forza l’opposizione di gran parte degli stessi conservatori alla politica del governo di attaccare preventivamente i regimi considerati ostili alla sicurezza e agli interessi americani.

Fabrizio, insieme a milioni di telespettatori europei e occidentali, aveva assistito inerme alle immagini mandate in diretta dai network  internazionali della CNN  e di Al Jazeera, e si auspicò un colpo di stato alla Casa Bianca prima che fosse troppo tardi, ricordandosi dei racconti d’infanzia in cui il nonno  Salvatore sproloquiava contro i nazifascisti, i quali durante la seconda guerra mondiale avevano proceduto ai massacri nei campi di sterminio, disseminati in Europa, ed erano ritenuti dal vecchio come degli assassini.

Era la prima volta che il giovane non desiderava essere un avvocato.

Avrebbe voluto far parte di una suprema corte di giustizia internazionale per giudicare di genocidio e di gravi delitti contro l’umanità i quadri dirigenziali e militari del governo americano, colpevoli di un’occupazione straniera nelle terre dell’Eufrate che non avrebbe mai controllato realmente un solo metro quadrato  di quell’area del medio oriente.

Nel suo dibattersi, convenne ancora una volta che agli americani, purtroppo, era difficile ritirarsi dal golfo senza perdere la faccia, mentre in Europa la strategia della tensione aveva portato delle inutili stragi ed era servita  ai falchi della politica per varare le leggi eccezionali dei governi dell’Unione contro il terrorismo islamico.

Su questo sfondo tragico Fabrizio salutò Olga avanti l’uscio di casa mentre la ragazza russa gli lanciava con la mano un bacio in attesa del suo ritorno e Fabrizio usciva dall’abitazione, scendendo le scale velocemente per recarsi prima in ufficio e dopo, alle ore undici dello stesso giorno, a palazzo Grazioli, ove si riunì la commissione sulla sicurezza nazionale e il giovane legale presentò la relazione conclusiva dei lavori; il presidente della commissione, subito dopo, di pomeriggio, avrebbe discusso innanzi l’organo legislativo del parlamento italiano.

Alcuni giorni prima, informalmente l’avvocato Berti aveva preannunciato al governo e al presidente del consiglio dei ministri il suo dossier nel quale evidenziava la necessità di una task force delle intelligence civili e militari, coordinati da un ministro ad hoc, al fine di prevenire  gli attentati nel territorio della nazione, e tale conclusione era parsa una buona idea allo stesso premier che era favorevole alla istituzione di un organo collegiale, coordinato da un ministro con portafoglio, al fine di prevenire e reprimere in Italia  il fenomeno del terrorismo dei fondamentalisti islamici.

Il premier convenne anche che la nuova figura istituzionale doveva essere un organo amministrativo e non giudiziario, che riferiva direttamente al presidente del consiglio.

Di contro, a priori,  fu scartata l’ipotesi di istituire una super procura nazionale, come autorevolmente sostenuto dal dottor Dario Gaymonat dell’ufficio requirente di Roma, diversamente si sarebbero snaturati i compiti istituzionali della magistratura, la quale era garante costituzionale e super partes degli equilibri tra il potere legislativo ed esecutivo e tra la magistratura stessa ed i cittadini.

Quella mattina Fabrizio assistette ai lavori introduttivi con una tensione innaturale, mostrandosi nervoso ma irremovibile a concludere secondo quanto gli dettavano le ragioni del diritto e del cuore,  non tradendo la sua coscienza quando prese la parola, ricordando ai membri della commissione, in riunione con i rappresentanti del governo e con  i più alti funzionari dello stato, che l’Italia si trovava ad un bivio, perorando ferme scelte politiche, l’immediato exit plan dall’antica Persia ed una formale condanna dell’invasione americana in territorio iraniano, da presentare  congiuntamente ai paesi dell’Europa continentale e dell’Unione.

L’avvocato Berti, alla lettura della relazione conclusiva, si infervorò dicendo:

“Il presidente degli Stati Uniti d’America ammetta a se stesso ed al popolo americano che la lotta al terrore non è  uno scontro tra le civiltà  o una guerra vera e propria.

Quella che nel lessico corrente viene definita guerra al terrore, in realtà è uno scontro del quale si debbono occupare i reparti speciali degli eserciti, i servizi segreti e le polizie del mondo libero, pur di stanare i terroristi, non le divisioni corazzate, gli eserciti e le flotte aeronavali equipaggiate anche con armi non convenzionali e nucleari, che servono a gonfiare a dismisura i bilanci del pentagono e della difesa americana, che aggiungono solo  numerose vittime del terrore alle decine di migliaia di altre vite innocenti.

Al Qaida  – osservò –  impersona il principale nemico del ventunesimo secolo, pericoloso e difficile da sradicare, soprattutto nelle masse arabe dei diseredati e dei poveri.

Tuttavia, la ricetta per  combattere il terrorismo islamico  è semplice: occorre disinnescare la carica ideologica dei fondamentalisti islamici, respingere fermamente l’ipotesi di uno scontro tra la civiltà e le religioni occidentali con il credo islamico, poi è prioritaria l’integrazione culturale e sociale dei popoli”. 

A sorpresa,  nel corso del suo intervento, perorato con il suo innato stile, mitigato dall’esperienza forense e rivolgendosi al presidente del consiglio puntandogli lo sguardo, il legale comunicò con la voce grave e commossa anche gli ultimi fatti dell’operazione “ambasciata americana” e la preparazione dell’imminente attentato della cellula di Al Qaida in Italia, diretta dal perfido fondamentalista islamico contro la città eterna, scusandosi con il premier di informarlo solo in quella riunione plenaria, giustificandosi del segreto istruttorio che gli era stato imposto dalla sostituto procuratore di Roma al fine di riferire nulla, onde non pregiudicare le indagini investigative in corso.

Concluse la relazione, quasi gridando:

“Occorre  fare presto dopo quanto  è  successo nel medio oriente e in Europa; rimbocchiamoci le maniche avanti gli organismi istituzionali internazionali, reprimendo con ogni forza  i propositi di strage che Marwan Al Said  e le cellule di Al Qaida stanno progettando di portare a termine nel mondo occidentale”.

Presero la parola gli altri componenti la commissione di sicurezza nazionale.

Mezz’ora dopo, la riunione incandescente cessò, e il premier con il signor ministro dell’interno, unitamente ai responsabili dei servizi segreti civili e militari, si ritirarono nella saletta ovale del palazzo, infine lì ebbero un colloquio riservato con l’avvocato Berti, convenendosi che ogni informativa proveniente dalla fonte confidenziale della donna palestinese sarebbe stata immediatamente comunicata da Fabrizio Berti all’unità di crisi istituita all’uopo in commissione e coordinata direttamente dal premier, coadiuvato dal signor ministro dell’Interno.

Il giovane rispose che era suo dovere, consapevole che al momento lui fosse l’unica possibilità immediata di prevenire e sventare l’attentato, salvando degli innocenti.

Si rese anche conto che Safyra, donna palestinese e musulmana, stava rischiando la sua vita per salvare quella di cittadini italiani.

“Accidenti, dov’era andata ? – pensò – 

Se le fosse successo qualcosa?”

Il tempo passava incessante, senza fermarsi, e mancavano meno di quarantotto ore all’11 Marzo.

L’avvocato Berti, il governo italiano e la procura della repubblica di Roma brancolavano nel buio, Safyra era lontana e la crisi non accennava a dipanarsi dal groviglio nella quale era intricata.

Con il passare delle ore e dei minuti, Fabrizio fu più teso, quasi frenetico.

Nel pomeriggio si recò a studio, in attesa che Olga  gli telefonasse; aspettò il calare della sera per andare  a prenderla  all’ambasciata russa.

Dietro le insistenze del premier e dei servizi, l’avvocato Berti aveva accettato di inserire nel suo cellulare una microspia per consentire ai servizi di intelligence di conoscere non solo  le sue conversazioni e captare i messaggi della misteriosa confidente, ma anche di seguire col sistema GPS i suoi spostamenti.

Era a conoscenza poi che da giorni il suo telefonino fosse sotto il controllo della magistratura, ma la donna musulmana non si era fatta più sentire, mentre la sostituto non l’aveva informato dell’atto invasivo, anche se  la voce del magistrato, ogni volta che lei lo chiamava, era accademica e formale.

La conosceva da tanto tempo per non capire che anche lei si sentiva invasa e  impacciata: il motivo era quello che la loro privacy fosse violata.

Finalmente il telefonino trillò e l’avvocato Berti sperò che lo cercasse Safyra, invece era la giovane magistrato che gli chiese dove egli si trovasse e se avesse delle nuove da riferirle

Lui rispose di essere nel suo studio, che l’attesa lo stava uccidendo e al momento guardava la TV per ingannare il tempo.

Mentre i due giovani conversavano amabilmente, augurandosi che non appena il lavoro fosse stato gettato alle loro spalle ci sarebbero stati giorni migliori, Fabrizio esclamò improvvisamente un forte grido di rabbia che colse la giudice di sorpresa, facendola saltare e lasciandola sgomenta, di stucco.

L’avvocato Berti, dal suo studio, davanti lo schermo di un televisore, gridò a squarciagola “porca puttana” e “Cristo Santo”, assistendo inerme alle immagini che i telegiornali nazionali stavano mandando in diretta, in collegamento con la BBC.

Disse alla ragazza di correre ed accendere il  piccolo monitor del suo ufficio perché le immagini in onda erano impressionanti: Al Qaida, la rete del terrore islamico planetario, aveva lanciato l’ennesimo attacco contro la città di Londra, a Backingam Palace, con decine di kamikaze che si  erano fatti esplodere a bordo di autobombe, distruggendo il fronte centrale e l’ala ovest della sede reale; le forze di sicurezza inglesi, sia pure in ritardo, rispondevano all’aggressione in quel preciso istante nel quale vi erano i combattimenti.

I morti si contavano a decine e ancora non c’era alcuna notizia se la regina, l’erede al trono o i principi reali della casa d’Inghilterra, presenti nel palazzo reale nel quale prima dell’attacco si svolgeva una cerimonia di stato, fossero tra le vittime.

Le immagini apparvero devastanti.

Le colonne di fumo si levarono dal sito invaso, numerosi colpi d’arma da fuoco ed esplosioni si sentirono nell’area sotto l’attacco mortale ed erano ritrasmesse incessantemente.

“Porca puttana”, Fabrizio continuò a urlare come un miscredente, contravvenendo al suo credo religioso di cristiano che gli imponeva di non bestemmiare, seduto inerme sul divano del suo ampio studio, con il telefonino incollato all’orecchio e circondato dalla segretaria e dai suoi collaboratori che dagli altri studi professionali  dell’appartamento s’erano portati nella stanza del titolare, attirati dalle imprecazioni dell’avvocato Berti che non si dava pace per la tragedia alla quale stavano assistendo in diretta, con altre decine e decine di milioni di telespettatori.

Non riuscì a pensare che a quelle vite innocenti e a quelle che potevano essere coinvolte nella città di Roma.

Ritornando a dialogare con la dottoressa Alfieri, le disse che la strategia delle cellule di Al Qaida era chiara: l’occidente era sotto assedio e seminare la morte nei paesi dei principali alleati americani era l’obiettivo principale dei terroristi.

Osservò  poi che gli inglesi avevano partecipato all’invasione iraniana e gli italiani erano gli unici alleati, insieme ai britannici, ad assicurare un appoggio politico esterno. 

Contestualmente, mentre Fabrizio chiuse la conversazione telefonica e si strinse con i colleghi a commentare le terribili immagini provenienti da Londra,  la BBC mandò in onda un video messaggio di Al Qaida, fatto pervenire negli studi della televisione araba di Al Jazeera, nel quale uno dei principali capi della rete criminale islamica rivendicava con tempismo l’ultimo attentato londinese, ammonendo le potenze occidentali a lasciare gli Stati Uniti d’America soli nel loro inferno, diversamente le lingue di fuoco e della distruzione dell’Unico e Vero Dio si sarebbero abbattute sui paesi amici del diavolo americano.

Il messaggio concluse riferendo che oramai i tempi erano scaduti, con l’auspicio di una sicura vittoria della Guerra Santa; Allah era con loro.

La lettura della rivendicazione per Fabrizio fu chiara: Backingam Palace era solo l’inizio e  l’indomani, la città di Roma,  considerata storicamente la capitale religiosa del mondo occidentale, sarebbe stata l’obiettivo più eclatante.

“Sara, presto; mi prenda il cappotto; debbo scappare”, disse l’avvocato penalista alla sua segretaria, ripetendo che stava correndo in procura e gridandole che per le successive comunicazioni urgenti era raggiungibile via cellulare, sul nuovo numero personale.

La segretaria porse il cappotto di fine cashmire sulle spalle dell’avvocato Berti, il quale si precipitò in strada senza fermarsi e senza dare ai collaboratori delle direttive di studio in sua assenza, tanta era la tensione.

La tv di Stato  e le radio annunciarono che  a Londra c’erano centinaia di morti e alcuna notizia riservata filtrava sulle condizioni della regina e dei reali d’Inghilterra, dei quali le fonti più attendibili aspettavano la conferma se a palazzo reale ci fosse stata un’illustre vittima, forse la regina stessa.

Appena salito sulla sua autovettura Fabrizio si mise alla guida, accelerando a velocità forsennata, correndo nel pieno centro storico di Roma, servendosi delle corsie preferenziali dei taxi e delle forze dell’ordine, noncurante delle numerose contravvenzioni che gli sarebbero fioccate in ufficio.

Giunto in tribunale, salì immediatamente nella stanza della sostituto procuratore e le disse  di essere certo che l’indomani anche Roma sarebbe stata sotto assedio, ma  per Dio, la strategia del terrore era evidente, anche se ancora egli non conosceva  le modalità  e i particolari dell’attacco. 

“Come sia potuto succedere?”, lei si informò subito, rievocando lo spettro dei bombardamenti su Londra durante la seconda guerra mondiale e gli ultimi attacchi terroristici alla città inglese.

Il silenzio scese lentamente  nella stanza della giudice, la quale  chiarì all’avvocato che  i servizi di intelligence di  mezza Europa e la stessa Scotland Yard erano stati informati del ritrovamento dei documenti del covo romano.

“Accidenti, le notizie che  provengono da Londra sono drammatiche”, osservò la donna con l’aria seria e senza alcun sorriso, sistemandosi seduta nella poltroncina dietro la sua scrivania, muovendosi sull’asse rotatorio della sedia a destra e a sinistra,  riflettendo ad alta  voce.

Subito dopo, la giudice prese il telecomando in mano e accese il televisore dell’ufficio, zappando tra i canali pubblici ed i maggiori network nazionali e internazionali, fin quando di soprassalto ascoltarono le ultime notizie.

La regina d’Inghilterra era in imminente pericolo di vita, la prognosi riservata; allo stato, la regnante si trovava in sala operatoria, sotto i ferri, mentre l’erede al trono e la compagna erano deceduti, raggiunti da un kamikaze che s’era fatto esplodere in mezzo al cerimoniale, uccidendo se stesso e causando altre vittime.

Era una notizia terribile.

Alle diciannove e venticinque, un’ora dopo, la  BBC intervistò il  primo ministro inglese, il quale, con gli occhi duri e la voce roca, spezzata da una tensione alla quale non era abituato, annunciò le gravi perdite della nazione:

“Centotredici sudditi di Sua Maestà sono morti, ci sono centinaia di feriti e l’erede al trono è deceduto, mentre la regina è ancora in prognosi riservata; secondo i medici, se lei supererà le prime ventiquattro ore di cure, non perderà la vita”.

Comunicò anche  che le due principali portaerei inglesi della Royal  Navy avevano tolto gli ormeggi dai moli della base militare dell’isola di Malta e navigavano nel mare Mediterraneo, dirette  verso le coste della Siria.

I servizi segreti angloamericani erano convinti che dietro l’aggressione alla capitale inglese vi fosse coinvolto il governo siriano; giorni prima erano stati avvisati di un’escalation degli attacchi alla città di Londra, ora era certo che alcune vittime tra gli assalitori erano Hezbollah, altri probabili cittadini palestinesi e giordani, vissuti nei campi profughi libanesi e siriani, delusi dai fallimenti delle ultime trattative con gli israeliani e le potenze occidentali per la nascita dello Stato palestinese, con Gerusalemme Est sua capitale. 

Era necessario, dunque invadere la Siria e chiudere il cerchio contro le nazioni dell’asse del male; solo il controllo del cuore dell’antico impero persiano avrebbe garantito una stabilità geopolitica della regione mediorientale e la sconfitta definitiva dell’integralismo islamico.

I due, l’uomo e la donna, intanto, assistettero imperterriti alle notizie provenienti da Londra e da Washington; le loro preoccupazioni corsero immediatamente alla cellula terroristica operante in Italia.

D’un tratto, l’intuito e la tensione suggerirono all’avvocato Berti di allontanarsi dal palazzo di giustizia e di recarsi a casa, accendere il personal computer e verificare se nella posta elettronica avesse ricevuto un messaggio; si ricordò che Safyra, nell’incontro al bar di Piazza di Spagna, s’era dichiarata una convinta navigatrice di internet, che yahoo.com fosse il suo sito preferito, e forse era in grado di mettersi in contatto con lei tramite la e-mail.

Decise di lasciare l’ufficio giudiziario, salutando Lorella con un bacio sulla fronte e con “un arrivederci a presto”, dirigendosi  sicuro verso il quartiere di Trinità dei Monti; subito raggiunse la sua casa e lì, bruciò il tempo di salire le scale, accese il computer, diede la password  e infine consultò la posta elettronica, però alcun messaggio era in arrivo.

D’altronde, Safyra aveva il  numero di telefonino del legale ma non la sua e-mail.

“Porca miseria”, esclamò con rabbia!

Mai quanto quel momento aveva desiderato che la sua privacy fosse limitata dall’indicazione della e-mail nel biglietto da visita che aveva lasciato alla donna.

Gli ultimi fatti di Londra, poi, erano di una gravità inaudita.

Passarono le ore,  e a mezzanotte entrò  nell’attico la compagna, che ritornava dalla precedente serata di incontri e di lavoro, preoccupata dalle news.

Vide Fabrizio in soggiorno, chino sulla tastiera che batteva byte a una velocità impressionante e aveva l’aria stanca, quasi sfinito avanti il monitor che non gli dava una e-mail regolare con [email protected] e le mille variabili che, chattando, forsennatamente provava e riprovava.

La donna, in silenzio intuì quanto Fabrizio stesse cercando di fare. Nei giorni precedenti le aveva parlato della missione di morte dei terroristici islamici e dell’incontro provvidenziale con Safyra.

Le fu evidente che lui cercasse di mettersi in contatto con la misteriosa donna palestinese, però  non ne conosceva l’indirizzo elettronico.

Vide anche Fabrizio triste, quasi contrito e sfinito, con le lacrime agli occhi.

Olga  gli si poggiò delicatamente sulle spalle, e avvicinando il suo capo a quello del giovane legale, gli diede il bacio sulla guancia, con un largo sorriso.

Il giovane si sentì soddisfatto dell’amore e della sensibilità che gli mostrava la nuova compagna; per un attimo si chiese di quanta stupidità fosse pieno il mondo.

“Gli uomini sono alla ricerca del potere, delle ricchezze e non si accorgono di quanto ne abbiano intorno: basta perdersi nel tuo sguardo o negli occhi profondi della persona amata, e non importa se questa sia la propria donna oppure qualsiasi altro essere umano”, le disse con un tono amico, quasi sconfitto.

“Per quanto tempo dovrai stare avanti il monitor; amore mio, riposati”, osservò l’affascinate straniera, dagli occhi blu dell’oceano infinito.

“Fin quando non troverò Safyra, inviandole il messaggio nella sua posta elettronica, non avrò pace. So che posso farcela e lei è lì, in qualche parte del pianeta, con il suo personal computer.

Purtroppo negli incontri in città, non abbiamo avuto molto tempo di parlare e scambiarci i nostri dati personali, ma è intuitiva e intelligente.

Lo so; capirà che ho bisogno di mettermi in contatto con lei e lo farà,  via telefonino oppure, come credo, tramite la e-mail”.

La ragazza comprese anche la tensione e la rabbia che attraversava Fabrizio e non si staccò per un minuto dalla scrivania, guardando solidale  il monitor, sperando che il suo uomo riuscisse a chiudere la ricerca.

“Adesso riposati”, gli replicò.

“Sono quasi le tre del mattino; non puoi andare avanti così, fino a  quando non crolli”.

“Hai ragione, forse dovrei fare qualche ora di sonno; lascerò il computer acceso e poi chissà, domani proverò ancora….”

“Domani proverai”, ribadì la ragazza moscovita, meravigliandosi per la tenacia e la determinazione che  lo differenziavano dagli uomini del suo passato, ominidi negletti vissuti solo sulle spalle altrui, e speculatori d’amore.

“Sì, credo che domani riuscirò ad avere un contatto; lo sento…”

Fabrizio invece intuiva, senza riferirla, l’idea atroce che i terroristi sarebbero riusciti  a portare a compimento un grave attentato in Italia con la perdita di altre vite umane.

E quel sangue innocente avrebbe chiamato altro sangue.

“Spero proprio che sia così”, disse laconico alla ragazza, invitandola con un braccio ad andare a letto, insieme.

“Anch’io lo spero”, affermò l’ospite, con l’affetto e la condivisione di sempre, accompagnandosi nel letto, iniando a dormire abbracciata e rannicchiata al suo uomo, che nel sonno fu turbato dai paurosi incubi che si materializzarono nel volto sadico e spettrale del terribile Marwan Al Said, scuro quanto la morte.

Fu subito giorno.

Le prime ore del mattino passarono velocemente.

Dopo essersi svegliato, Fabrizio fece una lunga doccia che gli ridiede le sue forze, che la notte fonda aveva scalfito; il giovane, dagli occhi impigriti, si sentì ancora intorpidito, con le spalle irrigidite e i muscoli stanchi.

Uscito dal bagno, coperto ai fianchi solo da un telo azzurro, si recò in soggiorno; lì conversò amabilmente con Olga, la quale  lo coccolò come un ragazzino, invitandolo a distendersi sul divano e, dopo avergli massaggiato con le sue mani le spalle, lo invitò ancora una volta a non preoccuparsi.

“Come ti senti?” Domandò al compagno, con la sua voce ferma, dall’accento straniero e sensuale.

Fabrizio era irrigidito come un atleta pronto allo scatto, ma per non farla preoccupare, la rassicurò obiettando che stava vivendo solo un momento negativo, passeggero, e forse le sue paure erano eccessive.

“Sto bene, probabilmente sono al top; sento la voglia di confrontarmi anche con l’inevitabilità e l’ineluttabilità del destino, ma l’attesa mi sfibra, mi distrugge.

Alle ore zero zero dell’undici marzo mancano meno di sedici ore;  domani sarà un giorno di trepidazione”.

“Mi dispiace molto, mio dolcissimo ragazzo impertinente”, scherzò.

“E’ stato uno shock terribile l’attacco a Backingam Palace e io lo so, ora temi per la sorte della tua stupenda e incantevole città.

Stai calmo; hai già fatto tanto, intuendo il progetto criminale dei terroristi islamici, attivando la magistratura  e il tuo governo.

Ora spetta agli altri vigilare sulla vostra sicurezza nazionale”, disse l’effervescente ragazza, ritornando a coccolarlo con le sue mani calde e sensuali, e con  i suoi baci.

“Non posso stare tranquillo; dovevo riuscire a fermarli prima che lasciassero Roma”, rispose nervoso, alzandosi ed andando avanti su e giù per la stanza.

“Ho ragione a essere arrabbiato con me stesso”, replicò con più freddezza e lo sguardo proiettato lontano.

“In questi ultimi mesi  mi sono tradito, facendo errori di ogni sorta: ho difeso dei cinici assassini pronti alla commissione di efferati crimini, dando un contributo alla loro scarcerazione, e ho lasciato Lorella nella mani di uno squallido magistrato, dalle voglie sessuali abominevoli e represse;  ora non riesco a far nulla per la mia nazione.

Posso solo considerarmi fortunato di averti conosciuta e trovata”, obiettò rasserenandosi.

“Era come se ti aspettassi da sempre”, le disse, ritrovando toni più pacati, sereni ed intimi, che momentaneamente lo allontanarono dai suoi pensieri contriti, scrutandola negli occhi blu, prendendole i fianchi e attirandola stretta  al suo petto.

“Ma adesso il destino di molti uomini e della nostra città è nelle mani di quei miserabili terroristi islamici; quello sporco medico egiziano è lontano, sicuro”, disse l’uomo, facendo un’analisi delle catastrofi che potevano procurare.

Sentì pure tanto odio per il terrorista islamico che di certo superava quello per il procuratore della repubblica, ma se di quest’ultimo era certo che  lui gliela avrebbe fatta pagare per avere osato molestare Lorella, forzandole la volontà e costringendola ad andarci a letto, temeva, purtroppo, che nessuno al mondo fosse in grado di fermare i fondamentalisti e il loro abominevole capo, dileguatosi nel nulla. 

In effetti, affrontare Dario era facile: l’avrebbe aspettato nel corridoio della procura o nei corridoi del tribunale  per dargli delle sonore sberle e gridargli a gran voce del “vigliacco”,  sproloquiandolo di viltà, mentre il capo terrorista era avvolto da una cortina  di nebbia e progettava in Italia un’immane strage, nascosto nel buio, chissà dove.

L’affascinante interlocutrice, seduta comodamente sul divano del soggiorno, nonostante fosse certa di essere nell’anima del ragazzo, di lui pensò che fosse ferito dai ricordi del passato, che ancora non avesse superato il distacco dal suo primo grande amore; però lei lo amava più di se stessa ed era convinta che il suo giovane compagno  sarebbe riuscito a dipanare il groviglio dei problemi che gli navigavano in testa.

Se non altro, contro gli spietati assassini venuti dal medio oriente aveva già fatto molto, attivando i servizi segreti italiani e le forze di polizia.

Anche i minuti passarono velocemente.

Furono quasi le nove del mattino e Fabrizio decise di andare a studio.

Lì avrebbe  ricomposto le sue idee e, prima di uscire di casa, abbracciò appassionatamente la sua donna, invitandola dolcemente ad avere cura di se stessa, come se temesse qualcosa di indecifrabile e di perderla.

Lei rispose a quell’abbraccio caloroso e vivo, mormorandogli nell’orecchio le parole magiche e segrete di un’antica tradizione pagana del popolo russo,  il cui significato l’uomo riuscì solo a intuire, seguendolo fino all’uscio di casa con il cuore colmo dei sentimenti mai provati per nessun altro uomo ed il presentimento che  il giovane potesse morire o che gli accadesse un fatto grave. Lo vide uscire e scendere  velocemente le scale.

Entrambi sapevano degli attimi, dei giorni e dei mesi indimenticabili passati insieme, e temevano che il destino o un cupido maligno e burlone fosse geloso della loro intrigante, complice armonia, come se da un momento all’altro la loro felicità potesse svanire come nebbia al sole.

Lui non era riuscito a confidare a nessuno quanto sentimento provasse per la sua splendida diplomatica moscovita, e il loro rapporto era perfetto, come se fossero una cosa sola, un  solo pensiero, un solo corpo.

Erano stati due naufraghi dispersi nel mare, che  a causa di un sortilegio antico si erano trovati aggrappati sulla stessa zattera che dal largo  li aveva condotti sulla battigia, poi a Roma, e lì si erano conosciuti e amati.

Fabrizio lasciò di corsa la sua casa.

A studio le ore trascorsero una ad una, e furono cariche di attesa e di tensione.

Il legale era incerto sul da farsi e fissava ora la cornetta del telefono sopra la sua scrivania, ora il cellulare telecom che teneva stretto nella mano, aspettandosi uno squillo che tardò ad arrivare.

Intuiva che Safyra non lo chiamasse perché era impedita o  paurosa d’essere scoperta, anche se le sorti di persone innocenti dipendevano da lei e dal suo cuore.

Il tempo passò velocemente.

Si fecero le diciotto e trenta, poi le venti, infine le ventiquattro.

Fu mezzanotte e l’avvocato decise di tornare a casa con l’animo contrito da un freddo glaciale, con tanta rabbia in corpo, poiché i primi minuti del nuovo giorno erano scoccati da pochi secondi e l’undici marzo scorreva indelebile il suo tempo.  

Per Fabrizio fu una fortuna ritornare  a casa.

Olga lo notò non appena gli aprì la porta, contenta di rivederlo poiché da ore lo aspettava ansiosamente su nell’attico; le telefonate durante il giorno non l’avevano liberata della sua preoccupazione e dalle paure inconsce che al suo uomo potesse accadere qualcosa di irreparabile.

“Ha telefonato qualcuno?”, disse  lui entrando nell’attico e conoscendo la risposta, poiché diversamente sarebbe già stato informato.

Lei rispose di no, andandogli incontro ad abbracciarlo, spezzando quello strano silenzio che regnava nel soggiorno, interrotto solo dalle voci e dai suoni del televisore, poggiato sopra una discreta parete attrezzata posta avanti il divano.

Era notte fonda e i due giovani si scambiarono solo poche frasi, sentendo il peso di quelle  ore terribili, uniti solo dall’amore verso il compagno, guardandosi seduti vicini sul divano e tenendosi la mano con la reciproca solidarietà.

Decisero di andare a riposare; furono quasi le due del mattino e  la giornata si annunciava infernale.

Fabrizio guardò un’ultima volta sia il suo computer che il telefonino, messo da lui sotto carica, ma non aveva ricevuto alcun messaggio.

La terza ora dell’11 marzo  era iniziata a consumarsi e si portò a letto,  deciso di riposare.  

Alle sette meno un quarto del mattino, un bip bip partì dal personal computer e si espanse dal soggiorno dell’attico alla camera da letto.

Il trillo lo avvisò  che nella finestra della sua posta elettronica ci fosse  una e-mail in arrivo; era una delle centinaia di [email protected] e nomi fatti a casaccio il giorno precedente che gli rispondeva e, per Dio, era proprio lei: Safyra lo informava dell’inizio  delle operazioni dell’imminente attentato.

Il marito Marwan Al Said, di notte, inspiegabilmente, aveva abbandonato con un fedele mujaheddin il rifugio vicino al lago di Garda, e Muhammad e gli altri terroristi, poco prima dell’alba si erano preparati e vestiti eleganti.

Da alcuni minuti avevano lasciato la casa, nella quale lei era  stata lasciata sola ad aspettare il loro ritorno.

Erano  diretti a Roma,  per punire il grande Satana.

Il suo numero era  666, seicentosessantasei, ma la donna non fu in grado di riferire all’avvocato altri particolari, poiché  la sera precedente, nel corso della riunione di preghiera tra gli uomini, anche se lei aveva origliato poiché le era stato proibito di partecipare essendo una donna, non aveva sentito nulla  di quanto avesse detto Marwan ai suoi fedeli, e pertanto non le era dato conoscere il piano d’attacco.

Safyra supplicò Fabrizio di fare qualcosa: Muhammad era andato con altri cinque fratelli islamici e temeva per la vita del figlio, ritenendolo uno dei componenti del gruppo suicida che avrebbe dovuto compiere la missione di morte, adempiendo la fatwa.

L’avvocato Berti restò sgomento; doveva subito elaborare un piano d’azione, agire immediatamente, prima che l’attentato fosse portato a termine.

Oramai era certo che Roma fosse il luogo designato, ma l’arma e le modalità dell’attacco gli erano ignote.

La donna gli aveva indicato il numero del Grande Satana e a Fabrizio finalmente fu chiaro quale fosse il vero obiettivo: Marwan Al Said era stato un fanatico religioso egiziano delle regioni del Nilo Bianco, un cristiano coopta convertitosi all’Islam, seicentosessantasei era il numero biblico del Grande Satana e gli stessi cattolici eretici e cristiani protestanti nei secoli passati avevano identificato il male nel papa e nel suo titolo di pontefice massimo della chiesa cattolica, “Vicarius filii Dei”, dalle cui lettere gli esegeti estrapolavano il numero romano della biblica bestia selvaggia, appunto il grande Satana.

Poiché i terroristi erano lontani dalla città di Roma e dal Vaticano almeno quattrocento miglia, a Fabrizio una cosa fu certa: che l’attacco sarebbe arrivato in poche ore, forse in pochi minuti e dall’alto, mediante il dirottamento di un aereo di linea da far precipitare sulla Città del Vaticano e  sulla chiesa di San Pietro, con l’auspicio di Allah, l’Unico Dio  e di Maometto, il Suo Profeta, al fine di annientare definitivamente il pontefice di Roma, simbolo per eccellenza della ricchezza opulenta del mondo occidentale.

“Ma perché il perfido medico egiziano aveva lasciato il suo rifugio almeno sei ore prima del figlio e degli altri terroristi, accompagnato solo da un suo fedelissimo?

Perché Safyra era stata ingannata dal marito ancora una volta, poiché da quella missione nessuno, nemmeno Marwan Al Said, ne sarebbe uscito vivo?”

All’avvocato sembrò di scoppiargli l’anima dentro il petto.

Si vestì frettolosamente e lasciando la sua casa salutò con un forte bacio la sua donna, dicendole di amarla quanto la sua vita, indirizzandosi verso il Viminale, negli uffici centrali del ministero dell’Interno, che raggiunse dieci minuti dopo, alle sette e quaranta, deciso ad  allarmare anche il presidente del consiglio dei ministri, con il cui segretario personale, nel frattempo e telefonicamente, convenne di recarsi a palazzo Chigi per un colloquio classificato urgentissimo.

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