Diritti degli individui o diritti dei gruppi?

 
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Nela foto: Cinzia Sciuto, scrittrice e redattrice della rivista “MicroMega”.

Gela. Da quando per l’Europa le culture “altre” non sono più qualcosa da considerare dall’esterno e intorno alle quali decidere ideologicamente e astrattamente l’approccio più corretto (razzismo, paternalismo, relativismo culturale, etica del rispetto, ecc.), ma componenti interne al tessuto sociale ed economico dei suoi Stati membri, il problema politico del modo in cui relazionarsi concretamente ad esse è diventato urgente.
Le posizioni dominanti, semplificando un po’, com’è noto, sono due. Di fronte alla disomogeneità delle società, la posizione reazionaria, intrinsecamente razzista, mentre da un lato sogna un ritorno a una mitica omogeneità, dall’altro mette in atto pratiche ostili di segregazione e di respingimento; quella progressista, invece, tende ad invocare le virtù del multiculturalismo, inteso come destino di una convivenza pacifica tra blocchi sociali compatti definiti genericamente come “culture”.
La storia, però, ha già mostrato dove possono condurre il mito dell’omogeneità razziale e culturale e le pratiche segregazioniste. La conseguente vittoria del multiculturalismo, considerato eticamente più rispettabile, non è stata tuttavia indolore e oggi i nodi di certe sue contraddizioni e ambiguità concettuali di fondo vengono al pettine, come dimostrano le tensioni interne alle società europee e i rigurgiti identitari e razzisti presso settori sempre più larghi della popolazione, con grave rischio della tenuta stessa delle istituzioni democratiche.
A fare brillantemente il punto della situazione, con la proposta forte di una terza via, è una giovane filosofa siciliana che si occupa in particolare di diritti civili, laicità e femminismo. Il 13 settembre scorso, Cinzia Sciuto, che è anche redattrice della rivista “MicroMega”, ha pubblicato con Feltrinelli un pugnace pamphlet dal titolo inequivocabile e programmatico: “Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo”. L’aspetto di maggiore interesse di questo saggio sta nel fatto che in esso viene sferrata una critica devastante al multiculturalismo progressista non da destra, come ci si potrebbe aspettare, ma da sinistra, sulla base di un armamentario concettuale che mette insieme una forma radicale e addirittura “trascendentale” (pp. 15, 31-34, ecc.) di laicismo, un cosmopolitismo marcatamente anticomunitarista e un femminismo combattivo che trae le conseguenze estreme di un approccio attento in maniera adeguata all’universalismo “kantiano” dei diritti fondamentali di ciascun essere umano. Né è da sottovalutare il fatto che nel suo argomentare serrato e lucido la Sciuto riesca molto bene a fornire delle chiarificazioni concettuali davvero illuminanti; in tal senso, il libro è chiaro e accessibile a chiunque, perché non cede quasi mai al vezzo tipico di molti filosofi di nascondersi dietro una terminologia oscura e fintamente specialistica.
Poiché i cinque “filoni argomentativi” (p. 15) della Sciuto corrispondo ai cinque capitoli in cui si articola il saggio, vale la pena provare a sintetizzarli separatamente.

La laicità non è nemica del sentire religioso
Secondo un pregiudizio molto diffuso, il laico si contrappone in modo ostile al credente di una qualche fede religiosa. Il laico, invece, può essere benissimo un credente. Quello che gli interessa sul piano politico e della convivenza civile, invece, è sia il compimento della secolarizzazione, cioè la separazione tra lo Stato e le chiese, sia soprattutto che nessuna chiesa pretenda di imporre le proprie norme ai membri delle altre chiese e a quelli che non appartengono a nessuna chiesa. Il laico, dunque, si contrappone al fondamentalista di qualunque fede e ideologia. Da questo punto di vista, uno Stato come quello italiano, per esempio, è ancora molto lontano da un ideale regolativo del genere, se si pensa all’influenza ancora pesantissima esercitata dalla Chiesa cattolica sulla politica e sulla società.
È questo che oggi dovrebbe fare della laicità non un giocatore in campo nel normale conflitto delle idee ma un “trascendentale” in senso kantiano, cioè una condizione di possibilità. Essa sta a bordo campo ed è lo strumento attraverso il quale lo Stato svolge “il ruolo di garante dell’autonomia dei singoli cittadini” (pp. 32-33), difendendoli dai pericoli dell’eteronomia, cioè della determinazione dall’esterno spesso in violazione dei diritti individuali universali, che corre chi appartiene senza averlo scelto a gruppi culturali fondamentalisti (si pensi ai bambini degli amish, degli ebrei ultraortodossi, dei cattolici più tradizionalisti, degli islamisti, ecc., per non parlare delle donne). Per un laico, dunque, nessuna tradizione culturale di gruppo può prevalere sulla libertà dell’individuo e lo Stato ha il difficile compito di fornire ai singoli cittadini ogni mezzo possibile per poter costruire liberamente la propria identità culturale.

La religione va valutata per quello che fa
Ispirandosi a una celebre analisi del filosofo Karl Popper, la Sciuto smaschera il trucco metodologico del cosiddetto “essenzialismo”, cui ricorre di solito chi ha interesse a smarcarsi dalle critiche indirizzate a certe pratiche. Non esiste un nucleo essenziale, autentico e vero delle credenze religiose istituzionalizzate, perché esse vengono definite storicamente da come agiscono di volta in volta nel mondo. Di conseguenza, nessuno può rivendicare l’autenticità di una dottrina e di un’interpretazione data dei testi sacri e, laddove per esempio una comunità religiosa violi i diritti umani di qualcuno dei propri membri in nome della dottrina o della tradizione, a prevalere dev’essere sempre la legge fondamentale dello Stato in cui ci si trova. A tal proposito, il caso delle donne è emblematico. Poiché la loro discriminazione è trasversale e coinvolge diverse comunità culturali all’interno di uno stesso Stato, quest’ultimo ha il diritto di fare il “ficcanaso” (per usare un’espressione della filosofa americana Martha Nussbaum, citata polemicamente dalla Sciuto: cfr. pp. 45-46) e di entrare nel merito delle loro pratiche fondamentaliste per difendere i diritti delle cittadine. Il femminismo, in questa prospettiva, non può che essere intimamente connesso all’approccio laico e democratico.
Con un coraggio intellettuale degno del filosofo Daniel Dennett e del biologo Richard Dawkins (mai citati ma certamente presenti in maniera implicita nell’orizzonte dei suoi punti di riferimento), la Sciuto attacca uno dei privilegi più incomprensibili accordati ai gruppi religiosi, ovvero quel “rispetto” che li sottrae alla critica per non turbare la sensibilità dei loro membri. Ma consentire che la suscettibilità di qualcuno definisca i limiti della libertà di espressione è un controsenso, perché significherebbe disinnescare sul nascere qualsiasi dibattito. Occorre invece tenere ben distinto il rispetto dovuto alla persona dalle credenze che questa professa: queste ultime non meritano alcun “rispetto” a priori, perché qualsiasi credenza può essere criticata e persino derisa fino alla blasfemia. Chi non accetta questo principio ha l’onere di dimostrare perché le credenze religiose dovrebbero essere trattate con un riguardo maggiore di quello riservato alle credenze di qualsiasi altro tipo (comprese quelle dei pastafariani).

Il problema dell’Islam europeo
Si comprende, allora, quanto sia assurda un’accusa come quella di “islamofobia” mossa persino da chi, da sinistra, si professa laico. È del tutto evidente che sia interesse dei fondamentalisti scoraggiare le critiche al proprio corpus di dottrine, anche perché costoro mirano alla leadership politica ed economica all’interno dei propri gruppi culturali, costituiti di solito da maggioranze moderate, silenziose e operose. Ma è assurdo che chi è esterno a tali gruppi si faccia intimidire dall’accusa di “-fobia”. Se si vive nel contesto di una società liberaldemocratica e multiculturale, è cruciale esercitare una vigilanza costante sul rispetto dei diritti dei singoli cittadini, perché i gruppi religiosi tendono spesso a rivendicare spazi indebiti di autonomia non solo di costume ma addirittura giuridica. La Sciuto invita opportunamente a osservare le varie sfaccettature che assume l’islam all’interno delle varie società europee (come ogni cultura, esso si contamina e negozia pratiche e comportamenti con il contesto in cui opera) e mostra lo spettro delle possibili forme di vita su una scala che va dalla perfetta integrazione all’autoghettizzazione in spazi fisici e culturali chiusi e inaccessibili. A tal proposito ella discute ampiamente e con implacabile rigore logico-filosofico il problema del velo per le donne e del grado di libertà di scelta che sta alla base del suo uso. L’approccio multiculturalista improntato al “ponziopilatismo” (questo termine è introdotto in 5.6) suggerisce, ancora una volta, di non ficcare il naso in quello che apparentemente è un semplice “pezzo di stoffa”, ma la Sciuto sviscera tutto il carattere politicamente “performativo” di un simile capo di abbigliamento femminile e mostra che esso porta con sé dei significati culturali che in ultima analisi condannano la donna ad adeguarsi a un modello prettamente maschile di “modestia”, ancora una volta a danno dei suoi diritti individuali fondamentali. Non è, dunque, tanto un problema di vietare o non vietare il velo nelle nostre società, né basta parlare semplicemente di scelta; si tratta invece di esaminare di volta in volta su quali basi vengono effettuate certe scelte, cioè se una donna ha ricevuto un’educazione adeguata per una scelta sufficientemente libera e se una eventuale scelta contraria ai dettami del gruppo non la esponga al rischio di essere emarginata, maltrattata e persino uccisa.

La questione dell’identità
Quello dell’identità è un vecchio problema filosofico che la Sciuto affronta in chiave decisamente anti-essenzialista: non esistono essenze, né individuali né, tanto meno, collettive. L’idea che esista un’identità collettiva essenziale di tipo razziale, religioso o più genericamente culturale è un vecchio mito reazionario tipico di quelle che Karl Popper chiamerebbe “società chiuse” (da “La società aperta e i suoi nemici” di quest’ultimo la Sciuto preleva significativamente l’epigrafe generale del libro e quella del secondo capitolo). Anzi, l’identità collettiva è una di quelle cose che sembrano esistere per il fatto stesso che vengono nominate, ma a uno sguardo più attento, appena si cerca di definirle, si sciolgono al sole e rimaniamo con il nudo nome in mano. Non solo. L’“orgia identitaria” (p. 87) è spesso nient’altro che un’operazione di potere attraverso la quale la minoranza più agguerrita e fondamentalista di un gruppo cerca di esercitare un’egemonia culturale che mira sia a ottenere un riconoscimento politico-sociale sia a silenziare il dissenso interno, e in quanto tale essa è strutturalmente nemica dei diritti individuali che lo Stato laico dovrebbe garantire.
Ad esistere, dunque, sono sono solo gli individui, perché i gruppi sono costruzioni culturali arbitrarie che dipendono di volta in volta dal criterio di definizione scelto. Ma sarebbe un errore pensare che l’identità dell’individuo sia un’essenza unica e immutabile. Ciascun individuo è di volta in volta una composizione di appartenenze diverse e non di rado contraddittorie che si incrociano e si compongono, tenute insieme dalla narrazione autobiografica cosciente che istituisce quell’equilibrio precario e unico che chiamiamo identità. Quest’ultima, dunque, è multipla, non solo nel senso che è diversa da individuo a individuo, ma anche nel senso che cambia nel corso della vita di uno stesso individuo. L’irriducibile diversità di ciascun individuo, osserva la Sciuto, ha importanti implicazioni sociali e politiche, perché essa invita a valorizzare ciascun soggetto nella sua irripetibilità, che pertanto è sede della universalità dell’essere umano in quanto tale. Da qui l’esigenza di una emancipazione universale sul piano individuale che da un lato si contrapponga al riconoscimento di una identità collettiva che soffoca le istanze dell’identità individuale e dall’altro disinneschi le derive conflittuali all’insegna dell’individualismo e dell’egoismo. L’esistenza e l’unicità dell’individuo è di per sé un appello alla solidarietà e al riconoscimento del valore assoluto di ciascun essere umano e della sua uguaglianza di fronte alla legge, come già suggerito da Kant quando proponeva l’imperativo categorico di trattare ciascun uomo come fine e non come mezzo.

Per un cosmopolitismo non multiculturalista e non comunitarista
Secondo la Sciuto, il punto cruciale sta nel decostruire l’idea che i gruppi culturali possano avere dei diritti. Soggetti di diritto, infatti, possono essere solo gli individui e compito dello Stato è garantirli contro le pressioni dei gruppi a tutti i livelli, da quello familiare (si pensi all’indottrinamento forzato dei bambini) a quello religioso (si pensi alla discriminazione istituzionalizzata delle donne nel mondo cattolico e in quello islamico). Pensare che uno Stato di diritto laico e liberaldemocratico possa riconoscere diritti ai gruppi significa ammettere la possibilità che al suo interno si instauri un infausto pluralismo giuridico, che è una sorta di assurdità logica. Significherebbe, per esempio, che un individuo possa contemporaneamente godere di diritti fondamentali garantiti dallo Stato ed essere sottoposto al regime antidemocratico del un gruppo religioso di appartenenza. Come esempio principale di pluralismo giuridico, la Sciuto fa quello dei tribunali della “sharia” in Inghilterra (e non solo), che in ultima analisi finiscono per sottrarre alle donne quelle libertà civili garantite dal paese in cui vivono. Oppure si pensi al modo in cui vengono educati i bambini nelle famiglie dei fondamentalisti amish, islamici, cattolici, ecc.: fin dove può intervenire lo Stato quando ai bambini, per esempio, viene negato il diritto allo studio? La versione forte e relativista del multiculturalismo che caldeggia il pluralismo giuridico sfocia inevitabilmente in una sorta di razzismo, per cui si dice che è giusto rispettare i costumi oscurantisti di certe culture minoritarie e si sospende la critica basata sui valori democratici e sui diritti umani, che invece dovrebbe avere una portata universale e non limitata semplicemente alla cultura “superiore” che ospita tali minoranze.

In conclusione, la Sciuto mostra la miseria intellettuale e morale di quello che chiama “complesso del colonizzatore”, perché chi si rifiuta di lottare per estendere a tutti gli individui i diritti umani fondamentali sulla base del sospetto che si tratti di una forma mascherata di neocolonialismo giuridico (una clamorosa “fake news”: p. 151) tende ad ignorare che spesso la richiesta di accedere ai diritti umani è partita proprio dalle colonie, mentre i colonizzatori hanno preferito non concedere ai colonizzati le stesse opportunità giuridiche di cui loro stessi godevano. Una fake news disinvoltamente e ipocritamente diffusa anche dalla Chiesa di oggi (in passato pesantemente coinvolta nel colonialismo e nelle conversioni forzate), la quale grida allo scandalo dell’indottrinamento colonialista quando si propone di mandare aiuti economici ai paesi più poveri a condizione che vengano accettati nel contempo programmi di educazione alla sessualità, all’uguaglianza e alla parità di genere (cfr. p. 152). «Il nostro tempo», scrive la Sciuto, «sembra dunque stretto nell’alternativa fra una deriva comunitarista/multiculturalista, da un lato, e un soggettivismo individualista, narcisista ed egocentrico, dall’altro. Due approcci solo apparentemente distanti ma che in realtà condividono un nucleo fondamentale: una sostanziale indifferenza nei confronti del destino dei singoli esseri umani. Per uscire da questa tenaglia è dunque urgente elaborare una prospettiva solidale, laica, libertaria e universalista: perché i diritti, se non sono universali, si chiamano privilegi» (p. 153).

P. s. Una postilla critica
C’è un capoverso, a p. 28, che mi ha lasciato perplesso. Scrive la Sciuto: «Il mondo disincantato, che scopre che non esiste nulla al di là dell’orizzonte finito in cui ci troviamo a vivere, è anche quello che riconduce il senso all’umanità dell’essere umano. Sgombrato finalmente il campo (pubblico) dall’ingombrante presenza di Dio, è l’essere umano il Signore del mondo, ciascun essere umano nella sua universalità. Ed è in questa prospettiva che lo Stato laico recupera un ruolo fondamentale nella promozione di questo nuovo orizzonte etico-politico, allo stesso tempo finito e universale».
Come abbiamo visto, per formazione l’autrice del pamphlet si basa molto sulla filosofia kantiana del diritto, e questo la porta a un uso forse un po’ troppo disinvolto della nozione di “universalità”. In questo caso, per esempio, essa è applicata all’essere umano in un modo filosoficamente discutibile, al limite della tenuta logica, come sembra accorgersi lei stessa quando accosta – questa volta in relazione all’orizzonte etico-politico che uno Stato laico deve promuovere – il “finito” e l’”universale”. Cosa è l’”umanità dell’essere umano”? Cosa è la sua “universalità”? E cosa significa che in uno spazio pubblico disincantato e autenticamente laico ciascun essere umano nella sua universalità è “Signore del mondo”? Quest’ultima espressione non comparirà più nel libro e francamente non se ne capisce il senso in un’ottica laica e scientifica. Il suo senso, infatti, è chiaro quasi esclusivamente entro una cornice metafisico-religiosa pre-copernicana, o al massimo kantiano-idealistica. Perché, allora, avventurarsi nell’uso di un’espressione così esagerata sul posto del Sapiens nel mondo così come lo intuiamo oggi alla luce delle nostre conoscenze più avanzate?
Alla fine dell’ultima nota del primo capitolo, la Sciuto promette chiarimenti sulla nozione giuridica di universalità nel quinto e ultimo capitolo. E in effetti, come abbiamo visto, la promessa è mantenuta: l’universalità è un concetto giuridico che rimanda al coinvolgimento di tutti gli esseri umani in un rapporto egualitario con la legge. Per il resto, il passo riportato suona troppo appiattito sul lessico di un pensatore la cui antropologia filosofica era costruita su fondamenta cristiane ed era comunque pre-darwiniana, con tutto quello che ciò comporta in termini di plausibilità scientifica.

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