Eccellenze del meridione mascherate da troppe bugie

 
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Gela. Nel numero precedente, abbiamo accennato ad affrontare il ragionamento delle imprese metalmeccaniche, esistenti nel regno delle due Sicilie. Oggi, cerchiamo di capire come dopo l’unificazione del regno dei Savoia, queste imprese spariscono lentamente e, strano a dirsi, si incrementano quelle del nord.
Pietrarsa, Mongiana, S. Leucio, la prima una delle più grandi industria di metalmeccanica dell’Italia di allora, florida fino al 1860, ma dopo l’unificazione, nel 1863, comincia lo smantellamento graduale dei piemontesi per favorire lo sviluppo dell’Anzaldo. La società occupava 1050 lavoratori nel 1857, mentre l’Ansaldo, ne occupava solo 480, pagati in grana (centesimo del ducato), e lavoravano 8 ore al giorno. Dopo l’avvento dei piemontesi, i lavoratori videro la retribuzione man mano scendere e aumentare le ore lavorative.
Cominciarono a trasferire nel nord i capireparto, poi alcuni macchinari modernissimi, i vigilanti, uno strumento per gli affaristi dirigenti per sfiancare le forze lavorative e sfoltire il personale tecnico per dare modo alla nuova direzione aziendale di procedere indisturbata.
Si elevarono lentamente le ore lavorative e si applicarono delle vere e proprie gabbie salariali, relegando gli operai di Pietrarsa in quella più misera per scelta geopolitica.
I lavoratori, stanchi di tali soprusi, nell’agosto del 1863 persero la pazienza e programmarono lo sciopero generale.
Il nuovo dirigente aziendale milanese, Jacopo Bozza, aveva abbassato la paga a soli 30 grana e portato l’orario di lavoro a 11 ore lavorative. Le maestranze chiedevano un piccolo ritocco: portare la paga a 35 grana e l’orario lavorativo a 10 ore giornaliere, per non sprofondare nella miseria più assoluta.
Istigati dal sorvegliante Mazzeo Giuseppe Aglione, la mattina del 6 agosto 1863, la campana dello stabilimento suonò a martello, come convenuto, per fare scoppiare lo sciopero dello stabilimento, forse il primo dell’Italia unita. Tutti i lavoratori si ammassarono nel piazzale dell’azienda per discutere il da farsi.
Bozza e il segretario Zimmerman, secondo un piano prestabilito, attraversarono il piazzale e si diressero nella vicina Portici per fare intervenire le autorità lì stanziate. Cozza avvisò il questore Nicola Amore ed il Maggiore Martinelli del 33° battaglione di bersaglieri, di stanza a Portici che concentrarono l’intervento armato nello stabilimento di Pietrarsa.
I militari si misero a sparare e nella confusione generale furono inseguiti per la città dai bersaglieri, armati con sciabole sguainate. I morti, dichiarati dalle autorità, furono solo 4 e 20 i feriti però i ricercatori onesti, notarono che l’indomani alla fabbrica, si presentarono 216 operai in meno. Queste le discordanze esistenti tra i vincitori colonizzatori e i nuovi ricercatori, che utilizzano le poche carte messe a disposizione dai colonizzatori. Secondo il testo di Michele Vocino, che cita uno scritto di Massimo Petrocchi, l’industria siderurgica e metal meccanica è l’industria del Regno delle Due Sicilie forse più interessante e starei per dire suggestiva: si va da piccole fonderie private al colosso di Pietrarsa, dalla piccola libertà di lavoro alla grandiosa industriale di Stato, dalla minima fonderia di ferro e di piombo di Napoli, allo stabilimento siderurgico di Atina, alla ferriera del D’Agiout in S. Sebastiano al “grande stabilimento siderurgico”, ora chiuso, a S. Donato nel distretto di Sora, all’opificio meccanico di Oomens, alla fabbrica di Guppy sulla via marina a Napoli”.
Il grande opificio di Pietrarsa, sorse tra Portice e S. Giovanni a Teduccio, per volere di Ferdinando II su consiglio di Carlo Filangeri, l’eroico combattente di Austerlitz e del Panaro che asseriva che i giovani napoletani non avevano alcun bisogno di fabbricare le macchine mosse dal vapore, il Regno delle Due Sicilie, preferiva che si dedicassero alla scuola di allievi macchinisti, con il volere di Ferdinando II, nel XI anno di regno assistito da Carlo Filangieri Principe di Satriano.
Una iniziativa molto apprezzata anche fuori dal regno e infatti, da Torino fu inviato il generale La Marmora, ufficiale piemontese d’artiglieria, a visitare la fabbrica di Pietrarsa e per primo ne riconobbe la fama.

La fabbrica, per volere di Filangieri, si sviluppò e si affermò nelle costruzioni metalmeccaniche, specializzandosi nella produzione di artiglieria per l’esercito e per la marina, di macchine a vapore, locomotive “Stepheson”, vagoni e binari. Iì si costruivano manufatti, che in parte furono esposti, riscuotendo unanime lodi, nella mostra del 1853, dove figuravano modelli di gru fisse e portatili, di argani Barbottin, di fucine, di grossi martelli a vapore, di ruote per piroscafi e di affusti, uno spianatoio per levigare le facce dei metalli, un tornio, una rigatrice di canne da carabina ed altri pezzi prodotti” secondo il magistero inglese coi fornelli Poddler” (Michele Vocino Primati del regno di Napoli), segue una descrizione analitica di tutto il materiale esistente all’interno della grande officina: torni, bulloni, forni, macchine a vapore etc.
Tutti quelli che si esprimono in forma negativa, su questi argomenti, sono in malafede. Secondo alcuni scrittori moderni, il Regno delle due Sicilie era in procinto di implodere, per mancanza di investimenti interni e soprattutto per gli Inglesi che nel 1810 aiutarono a fuggire da Napoli, il re Ferdinando III con la regina, per proteggerli dall’occupazione dei francesi di Napoleone, sfruttarono i siciliani, elargendo quattrocentomila sterline annue per “puntellare il regno” della spesa sostenuta dalla famiglia reale e dell’intera corte Siciliana, ma si dimentica di dire che l’ammiraglio Nelsen fu ripagato con un enorme feudo, comprensivo di casina, a Bronte. (Palermo 1815-1860 di Augusto Marinelli)
Se si cercano storici prezzolati, basta leggere “la storia “ di Indro Montanelli o la grande enciclopedia storica, composta da 16 volumi di 515 pagine da: “la Biblioteca di repubblica”, per non parlare del nostro grande verista Giovanni Verga e tutti gli scrittori che per acquisire notorietà, o arricchirsi, hanno solo parlato male del mezzogiorno. Chiudo per non appesantire i nostri gentili lettori e farci perdonare dalla direzione del giornale.

3 Commenti

  1. Ringrazio Maganuco per il richiamo al mio libro. Devo però informarlo che il decreto di concessione della ducea di Bronte, con il quale Ferdinando arricchiva Nelson a spese dei siciliani, reca la data del 10 ottobre 1799. La erogazione del governo britannico a Ferdinando avvenne sulla base di due trattati, il primo del 30 marzo 1808, il secondo del 13 maggio 1809, Nelson come quasi tutti sanno era morto il 21 ottobre 1805. Se si conoscono le date, si evita di prendere delle cantonate, e di far fuggire Ferdinando da Napoli nel 1810 e non nel 1806. Su Pietrarsa, delle cui vicende Maganuco in buona fede non sa praticamente nulla, tornerò una altra volta.

  2. Per svelare “la verità” su Pietrarsa Luigi Maganuco estrae parte di un articolo pubblicato dal sito neoborbonico “parlamentoduesicilie.org” che però è zeppo di notizie false.
    L’orario di lavoro a Pietrarsa era non di otto ore, bensì di dieci. I salari dei lavoratori erano differenziati a seconda della categoria in cui erano inquadrati: la paga giornaliera media era di 45 grana al giorno per gli “artefici civili”, ai militari ed ai servi di pena impiegati nello stabilimento si corrispondevano 12 grana al giorno. I garzoni ne percepivano 5.
    Dopo il 1860 non ci fu alcun trasferimento di tecnici e di “macchinari modernissimi” (ma poi dove e disposti da chi?).
    È addirittura risibile l’affermazione circa l’introduzione delle “gabbie salariali”, che avrebbe dovuta essere disposta per legge in un periodo di iperliberismo e nel quale non esisteva neppure il concetto di contratto di lavoro.
    La società per la gestione dello stabilimento di Pietrarsa della quale Jacopo Bozza – che aveva costruito parte della rete telegrafica nel Regno per incarico di Ferdinando II ed era stato già direttore dei telegrafi sotto il governo borbonico – era solo il prestanome, costituitasi il 9 maggio 1863, aveva come principali azionisti due ben noti industriali “napoletani”, Gregorio Macry e Francesco Henry.
    Le vittime della repressione del 6 agosto 1863 furono quattro, le prime di una catena che segnò il cammino del movimento operaio e contadino per tutta la storia d’Italia. La moltiplicazione dei morti è purtroppo una delle armi più usate dai neoborbonici.
    Mi fermo qui. Naturalmente posso documentare con precisi riferimenti alle fonti coeve ciascuna delle mie affermazioni. Invito chi non le ritiene veritiere a fare lo stesso con le proprie.

  3. Negli anni ottanta del secolo XIX nei salotti letterari italiani si aggirava uno scrittorello in cerca di fama e denaro. Si chiamava Giovanni Verga. Ridotto alla fame, una notte mentre dormiva sotto un ponte dei milanesi Navigli, gli venne un’idea per raggiungere il successo: scrivere libri parlando male del Mezzogiorno, tutto intero. E via, con “I Malavoglia”, “Mastro-don Gesualdo”, e novelle e romanzi l’uno contro la Campania, l’altro contro la Sicilia e la Puglia e così via. I colonizzatori piemontesi lo arricchirono, i critici prezzolati di tutto il mondo ne fecero un grande scrittore: e tale fu creduto fino al 2019. Allora finalmente sorse un intrepido difensore del sud dalla sintassi avveniristica, il cui nome e cognome iniziava con le lettere L e M, che, viste le copertine dei libri verghiani, denunciò la vera natura dello sciagurato. E da quel momento del Verga nessuno osò più parlare.

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