“Era una società per il traffico di reperti”, chieste sedici condanne

 
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Gela. Per il pm Federica Scuderi, trafugare reperti archeologici da importanti siti del territorio e poi rivenderli era diventato “un lavoro” per molti dei coinvolti nell’inchiesta “Agorà”. Il pubblico ministero, al termine della requisitoria, ha chiesto sedici condanne e quattro assoluzioni, quasi esclusivamente per prescrizione, ad eccezione della posizione di Vincenzo Strabone (difeso dall’avvocato Salvo Macrì), per il quale la decisione favorevole dovrebbe toccare il merito delle accuse. Il magistrato, davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore, ha ripercorso i tratti salienti di un’indagine, condotta dai finanzieri, che ha toccato alcuni dei siti archeologici più importanti dei territori delle province di Caltanissetta, Ragusa e Catania. Ci sarebbero stati contatti costanti tra presunti “tombaroli” gelesi, ragusani ed etnei, soprattutto della zona di Paternò. Alcuni degli imputati, ritenuti i veri organizzatori del traffico di reperti, avrebbero avviato contatti con altre Regioni, dove si recavano per tentare di chiudere compravendite, spesso su commissione. Avrebbero organizzato, secondo il magistrato, una “società”, attiva nella gestione di questi traffici illeciti. Sette anni e sei mesi di reclusione sono stati chiesti per Simone Di Simone, quattro anni e tre mesi per Orazio Pellegrino e Giuseppe Rapisarda, tre anni a Vincenzo Peritore, due anni per Nicola Santo Martines, Salvatore Cassisi e Mihaela Ionita, un anno e dieci mesi a Vincenzo Cassisi, un anno e nove mesi per Gaetano Di Simone, dieci mesi a Pasquale Messina, otto mesi a Nicolò Cassarà, sei mesi per Benedetto Cancemi, cinque mesi ad Amedeo Tribuzio, Giuseppe Cassarà e Pietro Giannino, tre mesi a Giuseppe Orfanò (altri capi d’accusa erano già prescritti). La prescrizione è maturata, secondo quanto riferito dal pm, per Francesco Musumeci, Francesco Rapisarda e Francesco Cannizzaro.

I coinvolti avrebbero avuto ruoli diversi, a cominciare da una delle menti, Simone Di Simone, già coinvolto in altre inchieste dello stesso tipo. Orazio Pellegrino si sarebbe occupato di stimare il valore dei reperti, rubati e poi piazzati sul mercato illegale. Ci sarebbero stati i contatti con complici ragusani ed etnei, ma anche imputati che materialmente si sarebbero recati sui luoghi per effettuare gli scavi. Pare che le informazioni sui reperti trafugati e i primi approcci per le compravendite si concretizzassero attraverso Whatsapp. Diversi difensori, che hanno concluso dopo la requisitoria, hanno respinto la ricostruzione d’accusa, mettendo in discussione il coinvolgimento dei loro assistiti. Intercettazioni, telefoniche e ambientali, avrebbero messo gli investigatori sulle tracce dei “tombaroli”. La prossima settimana, toccherà ad altri legali concludere. E’ stata invece stralcata la posizione di Rocco Mondello (difeso dall’avvocato Angelo Cafà), per il quale si procederà in altro giudizio. Nel pool difensivo, ci sono gli avvocati Flavio Sinatra, Davide Limoncello, Giovanni Cannizzaro, Maurizio Scicolone, Nicoletta Cauchi, Ivan Bellanti, Giovanni Lomonaco, Ivo Russo e Paola Carfì.

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