Esami: se lo Stato chiede l’impossibile

     
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    Gela. Le tracce della prima prova degli esami di Stato sembrano ormai concepite più per scatenare il solito dibattito mediatico sulla loro concezione di fondo che per rilevare la reale preparazione degli studenti italiani. Poiché l’offerta è ampia, c’è ogni volta materia sufficiente per far schierare gli opinionisti e riprodurre la classica polarizzazione tra apocalittici e integrati, cioè tra chi trova nelle tracce messaggi subdoli e subliminali volti a orientare ideologicamente il pensiero dei giovani e chi invece celebra la superiore saggezza dello Stato nell’invitare i giovani a volare col pensiero nei cieli dell’alta cultura. Il problema, però, è che in tutte queste discussioni a passare in secondo piano sono proprio le scuole, ovvero i giovani chiamati a sviluppare le tracce e i docenti che devono concretamente valutare i loro lavori.

    Tematiche stupefacenti
    Quest’anno le tracce della prima prova hanno trovato molti consensi, perché pochi possono negare il valore delle tematiche proposte. Il passo di Bassani fa vedere quasi in presa diretta cosa comportò, nella vita quotidiana, ritrovarsi in un Paese che aveva emanato le leggi razziali; il tema sulla solitudine, tra le altre cose, fa assaporare le riflessioni sublimi di Petrarca, Alda Merini ed Emily Dickinson; ci sono poi le questioni bioetiche sollevate dalla clonazione dei primati, il valore della creatività e così via. Nessuno può dubitare che si tratti di argomenti intellettualmente esaltanti e la prima traccia, addirittura, tocca involontariamente un tema di scottante attualità, perché fa riferimento al modo in cui uno Stato può rendere dolorosa la vita di talune minoranze con dispositivi legislativi tanto crudeli quanto gratuiti. La particolare congiuntura in cui si trova l’Italia, con un Miur che ha predisposto le tracce sotto un governo politicamente molto diverso da quello sotto il quale si stanno svolgendo gli esami, ha creato una situazione quasi paradossale che naturalmente non è sfuggita ai commentatori. E mentre alcuni hanno benedetto il tema sulla discriminazione, sottolineando che esso può innescare nei giovani un atteggiamento critico nei confronti del clima diffuso di intolleranza su cui sembra lucrare il governo stesso addirittura ai suoi massimi livelli, altri hanno sottolineato come esso proprio oggi tradisca la sua natura di mero esercizio retorico, a fronte di una realtà politico-culturale che si muove in tutt’altra direzione.

    Come lo Stato immagina lo studente
    Una delle tracce, però, quella di argomento storico, è rivelatrice del baratro che separa i responsabili del Miur non solo dalla realtà scolastica ma anche da certe acquisizioni minime relative alla cognizione umana che ormai sono largamente condivise dalla comunità scientifica. Leggiamo quello che viene esattamente chiesto agli studenti: «Dopo la seconda guerra mondiale, in un’Europa, [sic!] schiacciata tra le influenze delle due superpotenze e condizionata da un’economia distrutta dal conflitto, emerge una forte esigenza di stabilità politica. Già nelle prime fasi del periodo della cosiddetta “distensione”, in Italia comincia ad affermarsi un ideale di cooperazione internazionale che ha due grandi sostenitori in Alcide De Gasperi e Aldo Moro e che trova ragion d’essere in un necessario rinsaldamento dei rapporti economici, ma anche in un reale bisogno di pace, di progresso, di affermazione di comuni principi condivisi. Analizza criticamente il processo storico in tutta la sua complessità, partendo dalle riflessioni proposte».
    Per una critica al merito della traccia, in cui per esempio vengono accostate due personalità politiche italiane che hanno dato i loro maggiori contributi in momenti storici profondamente diversi, rimando all’ottimo articolo di Paolo Pombeni uscito sulla “Il Sole 24 ore” on line del 20 giugno. Qui intendo soffermarmi sull’assurda richiesta finale, che peraltro stride fortemente con la punteggiatura zoppicante con cui inizia la “consegna”.
    Soffermiamoci un attimo su come si trova a lavorare un candidato nel corso dell’esame. Per sei ore costui è seduto davanti a un foglio e può contare solo sull’aiuto di un dizionario della lingua italiana. Tutto il resto è vietato, dall’enciclopedia compatta allo smartphone connesso a internet. Queste restrizioni, com’è noto, hanno delle ragioni storiche e la loro accettazione in linea di principio è ormai entrata nel senso comune; e tuttavia esse sono in netto contrasto con le prestazioni non di rado superomistiche che vengono richieste ai ragazzi. Come si può solo pensare che costoro siano in grado di improvvisare l’analisi critica di un complesso fenomeno storico, addirittura affrontato, nel migliore dei casi, in modo frettoloso alla fine dell’anno scolastico? In futuro, chi rimarrà nell’ambito della ricerca imparerà che affrontare anche solo un argomento apparentemente banale (“La diffusione della moda dei pantaloni strappati”, per dire) richiede studio approfondito, ricerca e selezione delle fonti e soprattutto tempo. Tutto questo è abbastanza ovvio, ma c’è dell’altro.
    Se ci si concentra sull’ultima frase, si rimane sconcertati di fronte all’immagine dello studente ideale che essa presuppone. Questi è chiamato 1) ad analizzare, non a descrivere, un “processo storico” (cosa significa?); 2) a farlo “criticamente” (in che senso?) e 3) a rivolgere tale analisi critica a “tutta” la complessità di tale processo (com’è possibile?). Ora, il minimo che si possa dire è che l’estensore di un testo simile sia una persona dotata di un ottimismo esagerato, perché vede uno studente che completa il ciclo delle scuole secondarie superiori come una sorta di superman in grado di improvvisarsi super-esperto di storia contemporanea. Per non parlare del malcapitato docente di Italiano, al quale nessuno, credo, ha mai spiegato come riconoscere l’analisi critica di un processo storico in tutta la sua complessità “zippata” nello spazio esiguo di una manciata di fogli protocollo. Se si chiedesse a uno storico di professione di analizzare criticamente su due piedi un qualsiasi processo storico “in tutta la sua complessità”, costui semplicemente scoppierebbe a ridere. Si può senz’altro affermare, dunque, che al Miur sta a cuore un cittadino un po’ cialtrone che crede di poter parlare a vanvera di qualunque cosa, pur trovandosi “disconnesso” da qualsiasi fonte utile per il controllo almeno della correttezza delle informazioni fornite (nomi, date, ecc.).

    Il contributo degli studiosi della cognizione umana
    La casa editrice Raffaello Cortina ha da pochi mesi pubblicato in italiano un libro del 2017, “L’illusione della conoscenza. Perché non pensiamo mai da soli”, scritto da due scienziati cognitivi nordamericani, Steven Sloman e Philip Fernbach. Si tratta di uno studio scientificamente aggiornato dei meccanismi attraverso i quali ci rapportiamo conoscitivamente al mondo e agli altri. Ebbene, gli autori, attraverso il riferimento a numerosi studi ed esperimenti di psicologia della cognizione, mostrano in maniera efficace ed inquietante quanto sia illusoria la nostra convinzione di essere in possesso di conoscenze solide relative persino ad oggetti semplici e familiari come lo scarico del bagno e la bicicletta. Figuriamoci cosa accade con le bombe termonucleari, e il libro si apre proprio con l’esempio di un test catastrofico effettuato dagli americani negli anni Cinquanta del secolo scorso in un atollo del Pacifico, i cui effetti distruttivi, sia per la potenza dell’esplosione sia per il fallout radioattivo, andarono ben oltre le pur accuratissime previsioni. Tutto ciò è oggi spiegato con il fatto che il nostro cervello si è evoluto per svolgere compiti ben precisi, il più importante dei quali è quello di guidare il corpo all’azione. Ma questo implica che il nostro sistema mente-cervello è strutturalmente portato ad economizzare e a ridurre drasticamente la complessità del flusso di informazioni che proviene dal mondo esterno, perché altrimenti il meccanismo della scelta dell’azione più efficace si sovraccaricherebbe in maniera eccessiva. Dopo aver illustrato i limiti enormi e la superficialità inevitabile della conoscenza depositata nei nostri cervelli, gli autori del libro si chiedono perché, nonostante ciò, riusciamo a cavarcela, arrivando persino a creare sinfonie e a costruire grattacieli, astronavi, città e stati. La risposta sta nel fatto che la maggior parte della conoscenza che ci serve nella vita è depositata non nel nostro cervello ma nel nostro corpo, nel mondo esterno e nei cervelli degli altri.
    Alla luce di tutto ciò è facile misurare l’assurdità di un compito come “Analizza criticamente il processo storico in tutta la sua complessità” assegnato a un giovane non ancora ventenne, di regola tenuto isolato e immobilizzato davanti a un banco per sei ore nel corridoio o nella palestra della scuola insieme ad altre decine di compagni di pena.

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