Gela e le aree a rischio industriale, infertilità preoccupa: esperti, “monitoraggio capillare”

 
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Gela. Secondo gli esperti è una delle conseguenze da industrializzazione probabilmente più sottovalutate, ma l’infertilità continua ad essere studiata e soprattutto è diventata un fattore al centro di valutazioni nelle aree a rischio. Da Gela a Milazzo, per arrivare al polo del siracusano. Tutti punti nodali della presenza industriale in Sicilia e aree già ricomprese nei Sin. Gli studiosi di questo fenomeno si sono riuniti a Siracusa e proprio dal convegno è uscita la richiesta di un “monitoraggio capillare delle aree a rischio”. L’ha spiegato Antonino Guglielmino, presidente della Siru, la Società italiana di riproduzione umana. Medici e ricercatori si sono confrontati sul possibile nesso tra la presenza dell’industria pesante e l’infertilità. “C’è urgenza di un monitoraggio capillare delle aree a rischio, sollecitando in particolare Stato, Regione ed enti locali a sostenere la ricerca e ad avviare una virtuosa rete per la lotta all’infertilità che tenga conto anche dei fattori ambientali e degli stili di vita – ha dichiarato a Siracusanews.it – oltre che delle altre cause di denatalità, come l’aumenta età media in cui le donne italiane, fanalino di coda in Europa, mettono al mondo il primo e spesso unico figlio. Ricordiamo che le primipare in Italia hanno un’età media di 32,5 anni, contro – ad esempio – i 28,9 delle francesi. In altre parole, nel determinare il calo delle nascite, a quelle che sono le esigenze economiche, di studio e carriera si affiancano, perfino con maggiore incidenza le, cause ambientali e le abitudini quotidiane a rischi”. Da alcuni anni, esperti della Siru stanno coordinando il progetto EcoFoodFertility, che ha già prodotto dati sul nesso tra le aree a rischio industriale e le anomale percentuali di infertilità registrate rispetto ad altri territori, invece non toccati dall’attività dell’industria. “I biomarcatori riproduttivi, in particolare quelli seminali, estremamente sensibili agli stress ambientali – ha spiegato l’uroandrologo Antonio Montano tra i massimi esperti mondiali di patologia ambientale – risultano precoci predittivi delle patologie cronico-degenerative delle attuali e future generazioni, vista la trasmissibilità epigenetica dei danni. Possono perciò rappresentare una chiave di volta per una rivoluzione in campo epidemiologico. In sostanza occorre non solo valutare gli esiti di danno come fanno i registri tumori, ma cambiare il modello di valutazione del rischio salute, prendendo in considerazione i sistemi organo-funzionali “Sentinella” come l’apparato riproduttivo, che può dare informazioni precoci di modificazione funzionale o strutturale, prima che si manifesti il danno clinico”.

Montano ha illustrato le conclusioni alle quali è giunto il progetto EcoFoodFertility in altre zone a rischio industriale. “In un confronto fra 222 maschi sani, omogenei per età, indici di massa corporea e stili di vita, equamente distribuiti fra Terra dei Fuochi ed un’area a basso impatto ambientale nel salernitano come l’Alto Medio Sele, abbiamo riscontrato differenze statisticamente significative. Nelle aree a rischio abbiamo rilevato più metalli pesanti nel sangue e soprattutto nel seme, come cromo, zinco e rame, alterazioni dell’equilibrio delle difese antiossidanti e detossificanti nel liquido seminale e non nel sangue, ridotta motilità spermatica, aumentato danno al Dna degli spermatozoi e maggiore allungamento dei telomeri spermatici e non in quelli leucocitari – si legge ancora nell’intervento riportato da Siracusanews.it – ancora, in uno studio pubblicato a marzo 2018 su 327 campioni di liquido seminale di maschi omogenei per età, provenienti dall’area Sin pugliese, lavoratori Ilva di Taranto e residenti di Taranto, area Sir campana, i residenti nella Terra dei Fuochi e aree a più bassa pressione ambientale, come Palermo e l’Alto medio Sele nel salernitano, abbiamo registrato più alti livelli di Pm10, Pm2.5, benzene si correlavano ad alterazioni del 30 per cento in più del Dna spermatico”. Davanti a questi dati, gli esperti sono tornati a chiedere che le istituzioni regionali valutino l’avvio di un monitoraggio nelle zone ad alto rischio, compresa quella di Gela.

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