Il commerciante ucciso dalla mafia, c’erano anche i killer gelesi: Giugno nega di aver partecipato

 
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Gela. Versioni discordanti, almeno in base a quanto emerso in aula, sull’omicidio del commerciante niscemese Francesco Pepi, freddato dai killer di mafia nel febbraio di ventisette anni fa.

L’omicidio del commerciante. L’esercente, infatti, avrebbe detto no al pagamento della messa a posto. Dopo quanto emerso dalla ricostruzione del collaboratore di giustizia Antonino Pitrolo, è stato Giancarlo Giugno, ritenuto il vero capo di cosa nostra niscemese, ad escludere una sua personale partecipazione nel definire il progetto di morte. Giugno ha negato di essere entrato nell’organizzazione del piano, a differenza di quanto sostenuto, invece, da Pitrolo sempre davanti ai giudici della Corte di assise di appello di Caltanissetta. Le dichiarazioni sono state rese nel corso del giudizio di secondo grado scaturito dall’inchiesta “San Valentino Revenge”. Gli imputati devono rispondere non solo dell’omicidio di Francesco Pepi ma anche di quelli di Giuseppe Vacirca e Gaetano Campione, ritenuti affiliati al clan della stidda. Ad entrare in azione, a supporto degli affiliati niscemesi, ci sarebbero stati anche i killer di cosa nostra gelese. Così, a processo ci sono il boss Giuseppe Madonia, Antonio Rinzivillo, Giovanni Passaro, Pasquale Trubia, Alessandro Barberi e Salvatore Burgio oltre proprio ad Antonino Pitrolo, Giancarlo Giugno e Salvatore Calcagno. Giancarlo Giugno, però, ha ammesso di aver avuto un ruolo nell’omicidio di Giuseppe Vacirca. Nel corso dell’udienza, è stato sentito anche un altro collaboratore di giustizia, il gelese Angelo Celona. Nel pool di difesa, ci sono gli avvocati Flavio Sinatra, Cristina Alfieri, Antonio Impellizzeri, Agata Maira, Rosita La Martina e Vania Giamporcaro. Parti civili, invece, i familiari di alcune delle vittime oltre alle associazioni antiracket. Si tornerà in aula a gennaio.

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