Il gruppo di fuoco degli Emmanuello, Stimolo: “Per uccidere Burgio la stessa arma dell’agguato a Lisciandra”

 
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Gela. Le armi del gruppo di fuoco degli Emmanuello ma anche i piani per eliminare affiliati scomodi. In aula, davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore, a latere Silvia Passanisi e Marica Marino, hanno parlato gli ex vertici del clan locale di cosa nostra. Crocifisso Smorta, Fortunato Ferracane e Paolo Portelli, oggi collaboratori di giustizia, hanno testimoniato nel corso del dibattimento che si celebra contro Giuseppe Stimolo, Giovanni Avvento, Orazio Meroni e Giacomo Cagnes. “Avevamo deciso di uccidere i fratelli Salvatore ed Emanuele Burgio – ha raccontato Smorta – c’erano stati dei comportamenti che non erano piaciuti a Rosario Trubia. Chiedemmo l’autorizzazione a Daniele Emmanuello. Salvatore Burgio lo dovevamo portare in campagna, con la scusa che gli volesse parlare proprio Emmanuello. Emanuele Burgio, invece, lo dovevano uccidere i ragazzi in città. Alla fine, Salvatore Burgio ci comunicò che non sarebbe potuto venire in campagna. Credo che qualcuno l’abbia avvisato. Così, decidemmo di ammazzarlo quando si recava a firmare alla caserma dei carabinieri. C’erano i ragazzi già pronti, anche Giuseppe Stimolo era stato allertato. Ricordo che Burgio, però, si accorse che uno dei ragazzi stava uscendo la pistola e riuscì a scappare”.

“Consegnai i soldi delle rapine”. I tre collaboratori di giustizia hanno confermato che il clan ebbe contatti con tutti gli imputati, anche per le armi. “Stimolo – ha confermato Smorta – partecipò all’agguato all’ingegnere Fabrizio Lisciandra. Dopo quei fatti, c’era il rischio che fosse stato riconosciuto e lo mandammo via dalla città”. Stimolo avrebbe poi raggiunto Genova, anche con l’ordine di mettere a segno rapine per conto del clan. Su questo punto, però, i collaboratori hanno fornito versioni scarne. Lo stesso Stimolo ha invece deciso di rendere dichiarazioni spontanee. “Salvatore Burgio – ha detto in aula – lo dovevamo uccidere io e Paolo Portelli. Avevamo la stessa pistola usata per l’agguato a Lisciandra, che in quel caso poi si inceppò. Per quei fatti io sono stato assolto. Mi mandarono via dalla città, ma poi gli consegnai i soldi delle rapine di Genova, circa dieci milioni delle vecchie lire”. I collaboratori sentiti in aula hanno risposto alle domande del pm della Dda di Caltanissetta Luigi Leghissa e a quelle dei difensori, gli avvocati Flavio Sinatra, Carmelo Tuccio, Mariella Giordano e Giuseppe Di Stefano.

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