La “buona scuola” messa a nudo

 
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Chi volesse vaccinarsi contro la tentazione spesso irresistibile di parlare a vanvera della cosiddetta “Buona scuola” ha finalmente a disposizione uno strumento prezioso, un vero e proprio vademecum che la illustra sotto ogni aspetto, da quello legislativo a quello sociologico, da quello ideologico a quello relativo al suo impatto sull’opinione pubblica. Si tratta di un volume insieme agile, chiaro e rigoroso appena uscito per i tipi della Pisa University Press, che ha per titolo “Campo educativo e ‘Buona scuola’. Narrazioni in rete di alcune conseguenze sociali e politiche della legge 107/15”. Ne è autrice Elena Gremigni, un’insegnante livornese di Filosofia e Storia, nonché docente a contratto di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e di Sociologia dei gruppi presso l’Università di Pisa.
Come si evince dal sottotitolo, il punto di forza di questa ricerca sociologica consiste in una analisi a campione di alcuni ambienti digitali nei quali gli insegnanti hanno discusso della legge 107 del 2015, manifestando dubbi e non di rado una chiara ostilità nei confronti dei presupposti politico-pedagogici e persino dell’opportunità stessa di una riforma che ha avuto anche delle ripercussioni politiche sul principale partito di governo che l’ha voluta, come dimostrano soprattutto i risultati del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 e delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 (un dato, quest’ultimo, che il libro non ha fatto in tempo a registrare, anche se lo ha in qualche modo previsto).
Attraverso quella che i sociologi definiscono “connective action”, molti insegnanti hanno cominciato a usare la rete come spazio di discussione pubblica sul tema sin dal maggio del 2014, quando la “Buona scuola” venne presentata come un progetto di riforma diffuso dal Miur su internet in un policromo formato pdf. Il campione preso in esame è costituito dalle lettere inviate a “La tecnica della scuola” e a “OrizzonteScuola.it”, nonché dai due gruppi Facebook “ProfessioneInsegnante” e “Docenti IMMOBILIZZATI”, creati appositamente per aggregare gli insegnanti disponibili a confrontarsi sul progetto di legge. Come riconosce correttamente l’autrice, tale campione non può considerarsi pienamente rappresentativo della totalità dei docenti, perché molti di loro sono ancora lontani dallo status di “netizen” sia per scelta consapevole sia per semplice analfabetismo digitale. Eppure, il dibattito acceso e partecipato che nel biennio 2015/2016 si è svolto in quegli ambienti digitali mostra allo sguardo della sociologa il pieno realizzarsi del fenomeno cosiddetto dell’“autocomunicazione di massa” (“mass self-communication”), ovvero l’emergere di «quei processi comunicativi nei quali gli utenti risultano al tempo stesso produttori e consumatori di informazioni» (p. 9). Non solo. Anche se la ricerca aveva lo scopo di fotografare la posizione dei docenti nei confronti di una riforma relativa al mondo della scuola, non è stato possibile ignorare il fatto che la diffusa ostilità ad essa si stava legando a un giudizio fortemente negativo nei confronti del Partito democratico, cioè del principale partito artefice della riforma, al punto che «il dissenso nei confronti di una legge dello Stato stava provocando una più estesa contestazione nei riguardi del governo» (p. 11).

Una configurazione così nettamente sbilanciata verso il dissenso delle posizioni sulla “Buona scuola” ha suggerito alla studiosa di indagarne a fondo gli aspetti sia tecnico-legislativi sia puramente ideologici. In tal senso, sulla scorta di una notevole quantità di indicatori statistici, nel primo capitolo vengono messi in luce problemi profondi e di lunga durata della scuola italiana: la riduzione costante degli investimenti nel settore dell’istruzione (un tipico esempio di scarsa lungimiranza della nostra classe politica) e la perdurante disuguaglianza di opportunità formative per i giovani che provengono da contesti socio-economici e culturale svantaggiati. A questi problemi si aggiungono il preoccupante fenomeno dei “Neet” (“not [engaged] in education, employment or training”), cioè di quei giovani che non risultano impegnati né nello studio né nel lavoro né nella formazione, e il numero eccessivo di insegnanti precari. Il secondo capitolo consiste in una analisi dettagliata della legge 107 intesa come risposta al quadro problematico appena delineato. Su questo punto l’autrice mostra una posizione equilibrata e non manca di riconoscere alcuni meriti alla riforma, uno dei quali è certamente il piano delle assunzioni a tempo indeterminato che ha dato una risposta concreta alla piaga annosa del precariato, anche se persino qui si sono registrate approssimazione e fiducia inspiegabile in “algoritmi” illogici, con disagi non indifferenti per numerosi neoassunti. Tuttavia, a non convincere sono alcuni tratti culturali della riforma, la quale, nel tentativo di allinearsi a certe direttive europee relative per esempio alla cosiddetta “scuola digitale” e all’alternanza scuola-lavoro, sembra che si sia limitata all’adozione acritica di modelli pedagogici ed economici, basati sulla cosiddetta “Skills Strategy”, tutt’altro che neutri dal punto di vista ideologico, a discapito della nostra tradizione scolastica incardinata su un sapere umanistico fortemente orientato ai contenuti e allo sviluppo dello spirito critico. La stessa alternanza scuola-lavoro, lungi dall’avvicinarsi al virtuoso “dual system” che vige in alcuni paesi europei, sembra frantumarsi in esperienze sporadiche e improvvisate, peraltro basate «su una prospettiva che non distingue con chiarezza, anche a livello terminologico, il tirocinio non retribuito dal lavoro vero e proprio, con tutto l’insieme dei diversi doveri e diritti che questo comporta» (p. 168). Il terzo e ultimo capitolo, invece, è quello in cui sono esposti nel dettaglio i risultati della ricerca sulla “voce in rete” dei docenti, di cui si è detto.
In conclusione, possiamo affermare che la ricerca nel suo complesso mette bene in chiaro come il formarsi di un’opinione pubblica in gran parte contraria alla legge 107 sia legato a un’attenta valutazione dei suoi limiti, resa possibile da una discussione in rete appassionata e partecipata. I docenti, infatti, hanno colto innanzi tutto il fatto che la riforma non si fonda su una teoria pedagogica condivisa, chiara e autonoma. Pur recependo in parte le indicazioni dell’UE nell’ambito del “Lifelong Learning Programme”, essa sembra piuttosto un adeguamento acritico allo Zeitgeist neoliberista della globalizzazione in atto, con scarsa sensibilità ai possibili effetti negativi di lungo periodo sull’istruzione generale dei cittadini. Gli stessi punti della legge che riguardano specificamente gli insegnanti, come l’obbligo di aggiornamento sulle nuove metodologie didattiche, il bonus di 500 euro per l’acquisto di prodotti dell’industria culturale e l’ulteriore bonus per la valorizzazione degli insegnanti meritevoli, sembrano misure poco coerenti tra loro, che addirittura introducono a scuola quella logica mercatistica della competizione che è in aperto contrasto con la necessità, per gli stessi insegnanti, «di collaborare in armonia con i colleghi per realizzare una comunità di pratica che abbia l’obiettivo di migliorare gli apprendimenti degli studenti» (p. 169).
Ispirandosi al sociologo e antropologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002), l’autrice osserva infine come la stessa espressione linguistica con cui il governo ha reso popolare la riforma rappresenti un infortunio per lo Stato italiano, il quale, «pur essendo il detentore di una elevata concentrazione di capitale simbolico (…), non pare essere riuscito ad attribuire un valore positivo all’etichetta “Buona scuola”» (p. 172).

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