La chiesa e la mafia da Manzoni a Camilleri

     
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    Gela. Papa Francesco ha ricordato ieri a Palermo don Pino Puglisi, nel venticinquesimo anniversario del suo assassinio da parte di un sicario della mafia, riprendendo il celebre “Convertitevi!” gridato da Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 al termine di una messa celebrata nella Valle dei Templi di Agrigento. Naturalmente è un segnale positivo da parte di un papa l’indicazione netta di una incompatibilità di fondo tra l’essere cattolici e l’essere mafiosi. Tuttavia occorre interrogarsi sulla natura di questo vero e proprio chiarimento concettuale, e stabilire per esempio se si tratti di una chiave per comprendere certi settori della storia italiana, e siciliana in particolare, oppure se si tratti di un semplice, per quanto nobile, auspicio per il futuro, ovvero di qualcosa che rientra nell’ambito del cosiddetto pensiero illusorio (“wishful thinking”).
    La riflessione sul rapporto tra Chiesa e mafia, infatti, non di rado ha messo in luce elementi che sono in netto contrasto con le parole di papa Francesco, per esempio laddove sono emerse delle contiguità tra esponenti del clero e cosiddetti uomini d’onore. Non solo, ma non è mancato chi è arrivato persino a ipotizzare che una certa mentalità cattolica abbia costituito una sorta di terreno di coltura per quella mafiosa.
    Di questo tema al confine tra sociologia e “cultural studies” mi sono occupato nell’ultimo capitolo della mia monografia su Andrea Camilleri, uscita dieci anni fa, di cui vorrei qui riproporre in parte la versione rielaborata di un estratto, uscito nel marzo scorso sul numero 590 della rivista quadrimestrale del centro sperimentale di cinematografia “Bianco e nero”, tutto dedicato allo scrittore siciliano.

    Dalla “bolla” ai “pizzini”
    È noto che Andrea Camilleri ha scelto di non dare troppa visibilità alla mafia nella sua opera, ma è interessante esaminare il modo in cui egli affronta il tema del rapporto tra mafia e religione in testi come “La bolla di componenda” (1993) e “Voi non sapete” (2007). Attraverso un riferimento a un articolo di Sciascia, che a sua volta cita Borges, cercherò poi di allargare il discorso fino a toccare due luoghi celebri del “Don Chisciotte” e dei “Promessi sposi”, illustrando la tesi – non certo nuova, ma oggi sicuramente poco popolare – di un nesso storico, culturale e cognitivo tra la mentalità mafiosa e quella di un certo cattolicesimo. In particolare, intendo mostrare il modo in cui un certo cattolicesimo ha plasmato le menti rendendole abilissime nell’innescare dei pericolosi meccanismi di autoassoluzione.
    Camilleri muove dalla voce “Componenda” del “Dizionario storico della mafia” di Gino Pellotta (1977), nella quale, tra l’altro, si legge: «Forma di compromesso, transazione, accordo fra amici. Veniva stipulata tra il capitano della polizia a cavallo e i malviventi o i loro complici in una data età storica della Sicilia. Grazie alla componenda, il danneggiato poteva rientrare in possesso di una parte di ciò che gli era stato sottratto; in cambio ritirava ogni denuncia. Tutto veniva dimenticato, magari in cambio di cortesie formali, di dichiarazioni di rispetto».
    Quando in Sicilia si sparse la voce dell’imminente arrivo della Commissione parlamentare d’inchiesta, molti cittadini ed enti di varia natura produssero lettere (in genere anonime), articoli e documenti ufficiali nell’intento di collaborare o semplicemente di denunciare problemi relativi al lavoro della stessa. Tra questi, Camilleri si sofferma sui quattordici articoli pubblicati su «La Gazzetta d’Italia» tra l’agosto e il settembre 1874 da tale Giuseppe Stocchi, preside del Regio Ginnasio “Ciullo” di Alcamo. L’occasione di questi articoli venne offerta da un dibattito ospitato dal giornale sui provvedimenti amministrativi da prendere per risolvere i problemi di ordine pubblico e di costume morale della Sicilia. Stocchi rilevava che per rimuovere lo stato di pervertimento morale in cui versava la società civile siciliana occorreva andare alle radici, cioè alle “cagioni” profonde del malessere, e non limitarsi a misure amministrative superficiali come la scelta dei funzionari, la provenienza dei magistrati, una nuova regolamentazione della milizia a cavallo, ecc. Stocchi, quindi, spostava l’attenzione dal piano amministrativo a quello socio-politico e culturale e soprattutto nel secondo articolo, intitolato “La questione sociale – Elemento religioso”, svolgeva delle considerazioni acutissime che hanno attratto l’attenzione di Camilleri, anche perché tra le “cagioni” del pervertimento morale dei siciliani il professore includeva la bolla di componenda, sulla quale si mostra informatissimo. La conclusione di Camilleri ribadisce la nettissima differenza che sussiste tra le relativamente innocue bolle dei luoghi santi e la bolla di componenda, uno strumento attraverso cui la Chiesa si confonde con un’associazione per delinquere di stampo mafioso, peraltro detentrice della stessa sovrastruttura ideologica che fornisce alla mafia le condizioni di possibilità per la sua esistenza e per il suo radicamento nella struttura mentale dei siciliani devoti.

    «Ho davanti a me 72 tra lettere e biglietti che sempre una stessa persona invia o in risposta a lettere di altri (che però qui non prendo in considerazione) o per dare suggerimenti, consigli, pareri sulla conduzione di grandi e molteplici affari.
    Coprono un arco di tempo che va dal 2001 al 2004.
    La particolarità che appare subito evidente, a leggere in fila lettere e biglietti, consiste nel fatto che lo scrivente è una persona profondamente religiosa e animata da alti e severi principi morali.
    Ogni lettera, ogni biglietto per quanto breve possa essere, termina sempre con la stessa formula:
    “Vi benedica il Signore e vi protegga”.
    Identico è sempre l’incipit:
    “Con l’augurio che la presente vi trovi tutti in ottima salute. Come, grazie a Dio, al momento posso dire di me”.
    Insomma, tutte le missive si aprono e si chiudono col nome di Dio».

    Così comincia la Lectio Doctoralis su “La religiosità di Provenzano” tenuta da Camilleri il 3 maggio 2007 a L’Aquila in occasione del conferimento della Laurea Specialistica Honoris Causa in Psicologia Applicata, Clinica e della Salute. Il rapporto di questo testo con “Voi non sapete, l’alfabeto mafioso in sessanta voci” uscito presso Mondadori nell’ottobre dello stesso anno, consiste nel fatto che la Lectio si potrebbe definire una sintesi a tema (quello della religiosità dei mafiosi, appunto) di “Voi non sapete”, di cui utilizza, oltre a “Religiosità”, anche altre voci, tra cui soprattutto “Ammazzare”, “Giustizia”, “Preti” e “Croce”.
    La “bolla di componenda” e i pizzini di Provenzano, nell’analisi di Camilleri, sono documenti inversi, nel senso che stanno tra di loro come il diritto e il rovescio di un tappeto, lo sviluppo e il negativo di una medesima foto, e perciò stesso intimamente legati tra loro da una sorprendente simmetria. La bolla era un documento prodotto dalle alte gerarchie del clero che, con quel prendere parte in maniera parassitaria e ricattatoria al fatturato della criminalità, incorporava uno spirito tipicamente mafioso; i pizzini, invece, erano documenti prodotti da un capomafia che, con quelle invocazioni petulanti al pantheon cattolico, incorporano uno spirito tipico della devozione popolare.

    Borges, Sciascia e Don Chisciotte
    Com’è possibile che si sia creata una convergenza così plateale tra le forze del male e i custodi del messaggio evangelico, tra il diavolo e l’acqua santa? È il diavolo che è davvero e per natura un portatore di luce o è l’acqua santa che è avvelenata già nel pozzo?
    La pista per trovare una risposta a questi interrogativi si trova in un paio di pagine minori e illuminanti, una dell’ultimo Sciascia e una del primo Borges.
    All’epoca del maxi-processo alla mafia, Sciascia intervenne con una nota su “L’Espresso” del 16 marzo 1986, poi inclusa in “A futura memoria” (1989). È un breve articolo in cui si dice qualcosa di profondo sui siciliani intrisi di cattolicesimo partendo da suggestioni puramente letterarie. In particolare, Sciascia allude a un passo dell’“Evaristo Carriego” in cui «Borges dice di aver sempre pensato che l’Argentina fosse irrimediabilmente diversa dalla Spagna; ma ad un certo punto due righe del “Don Chisciotte” sono bastate a convincerlo di essere in errore. Le due righe sono queste: “… che nell’aldilà ciascuno se la veda col proprio peccato”, ma in questo mondo “non è bene che uomini d’onore si facciano giudici di altri uomini dai quali non hanno avuto alcun danno”. Credevo anch’io, come Borges, che nella mafia, nel “sentire mafioso”, nell’indifferenza della maggior parte dei siciliani di fronte alla mafia, non ci fosse nulla di spagnolo: ma questo passo di Borges, con dentro le due righe di Cervantes, mi ha convinto che sbagliavo».
    Il lettore italiano, soprattutto se siciliano, non può non trasalire, perché attraverso un gioco di somiglianze di famiglia sente che Borges sta parlando anche di lui. Gli argentini, attraverso Don Chisciotte, si rivelano intimamente spagnoli, e gli spagnoli, per chiudere il cerchio, hanno lasciato molto di sé nella mentalità siciliana, com’è noto. Scopriamo così che gli argentini e i siciliani, e non solo gli spagnoli, sono figli culturali di Don Chisciotte, nella misura in cui condividono un sentire intorno allo Stato ed alle sue leggi che costituisce quello che Camilleri chiama «campo di coltura» per la mafia.

    L’ambigua pedagogia manzoniana
    Nel pezzo citato di Sciascia c’è un riferimento a una questione linguistica che ha tormentato lo scrittore di Racalmuto: «Manzoni lesse in spagnolo il “Don Chisciotte”; e quando si imbatteva in parole o espressioni ancor vive nel dialetto milanese, diligentemente le annotava. Ne fece poi un elenco, che diede a degli amici: e da loro ci è stato conservato. Nell’elenco è la parola “mafia”, non registrata dai dizionari della lingua spagnola e finora per me introvabile nel “Don Chisciotte”. L’ho cercata, nell’edizione Aguilar delle opere di Cervantes, in tutti i luoghi in cui pensavo potesse trovarsi; ho chiesto soccorso agli amici che molto meglio di me conoscono lo spagnolo e Cervantes. Inutilmente».
    Sulla base di questo riferimento di Sciascia a Manzoni, possiamo allora concludere rileggendo alla luce di quanto detto fin qui uno dei luoghi più famosi della letteratura italiana, che di solito viene presentato (specialmente ai giovani) come un esempio di alta edificazione spirituale e che invece, a ben guardare, è sommamente diseducativo dal punto di vista morale e civile, ovvero dal punto di vista dell’etica di uno Stato di diritto. Cos’è, infatti, tutta la vicenda dell’Innominato, peraltro ambientata, com’è ben noto, nella Lombardia di inizio XVII secolo occupata dagli spagnoli (cioè pochi anni dopo l’uscita delle due parti del “Chisciotte”), se non un festival della componenda? Nel suo ingresso in scena egli è presentato come un vero capomafia che “compone” esattamente nel senso della definizione di componenda che si ritrova nella citata voce relativa del “Dizionario storico della mafia” di Pallotta (cfr. “I promessi sposi”, XIX, 39 e 46-47). Nel corso della famosa notte dei tormenti, l’Innominato è preso dalla paura dell’inferno esattamente come il “siciliano ignorante” di cui parlava il professor Stocchi nell’articolo citato da Camilleri ne “La bolla di componenda”, e proprio per questo dubbio amletico lascia cadere la pistola con cui sta per spararsi. Subito dopo, il ricordo delle parole di Lucia («Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia») lo consola e all’alba la gioia contagiosa dello “scampanare” e il corteo di gente in festa che andava incontro al cardinale Borromeo lo spingono a recarsi dall’alto e prestigiosissimo prelato (cfr. XXI, 53-61).
    Che il pentimento e la conversione religiosa possano riscattare una vita di crimini non è esattamente un articolo di fede che la Chiesa insegna da sempre e che i mafiosi accolgono a braccia aperte? La stretta confidenza di Dio con i peggiori criminali è teorizzata in maniera esemplare dallo stesso cardinale nel primo colloquio con l’Innominato, che è anch’esso un perfetto esempio di componenda, questa volta quasi nel senso della “bolla” (cfr. XXIII, 15-17).
    Anche noi, come l’Innominato, rimaniamo stupefatti nel rileggere con occhiali nuovi e smagati le parole del Cardinale, e siamo addirittura sconcertati dal suo amore divorante per il criminale. Com’è noto, l’incontro finisce a baci e abbracci: i due si mettono d’accordo, compongono l’“imbroglio”, per riprendere il termine del Canonico de “La chiave d’oro” di Verga (la novella definitiva sulla mentalità mafiosa), e «tutto viene dimenticato, magari con scambio di cortesie formali, di dichiarazioni di rispetto», per riprendere le parole del “Dizionario storico della mafia”, che qui non a caso cadono a pennello. La ciliegina sulla torta, infine, cioè la più classica e spettacolare forma di componenda, sarà la quantificazione in denaro da parte dell’Innominato del perdono ottenuto da Lucia: «cento scudi d’oro (…) per servir di dote alla giovine» (XXVI, 33), che nel “Fermo e Lucia” (III, IV, 61) erano addirittura «dugento».

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