La falsa emergenza della violenza a scuola

 
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Un frame di un video di violenza perpetrata contro un professore da alcuni alunni

Nei giorni scorsi sui media e sui social italiani si è fatto un gran parlare di comportamenti violenti a scuola, a seguito soprattutto di un video postato su youtube in cui si vede un ragazzino di un istituto tecnico di Lucca rivolgersi ripetutamente in maniera oltraggiosa al suo insegnante. Il quotidiano “La Repubblica” del 20 aprile richiamava in prima pagina un articolo delle pagine interne (20-21) con un titolo apocalittico: «Un insegnante picchiato ogni 4 giorni: “Difendeteci”. La ministra: bulli da bocciare». A pagina 21 c’era anche la testimonianza anonima di un’insegnante campana, intitolata «Mi hanno lanciato un banco addosso. Questa vita non la reggo più». Nel frattempo, altri video analoghi spuntavano come funghi dalla rete (alcuni vecchi di anni) e venivano trasmessi in continuazione, al punto che si aveva l’impressione che le aule scolastiche italiane si fossero trasformate improvvisamente in luoghi al cui confronto le curve degli stadi sembrano dei palcoscenici bucolici. Come se ciò non bastasse, a pagina 35 dello stesso numero di “Repubblica” c’era la famigerata “Amaca” di Michele Serra sullo stesso tema che ha scatenato un vespaio di polemiche per alcune osservazioni discutibili in essa contenute. Molti, infatti, indignati per l’apparente classismo borghese cui sembrava essere approdato il noto intellettuale di sinistra, hanno proposto contro-analisi sociologiche per smontarne le argomentazioni. In effetti, a parte i punti non controversi (la nostra società è ancora conservatrice e la scuola contribuisce a riprodurre le differenze di classe non favorendo più come in passato la mobilità sociale; le carceri sono piene di poveri, ecc.), c’era questo passaggio che in particolare ha lasciato perplessi molti lettori: «il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza». Secondo Serra, poi, questa sorta di legge “scandalosa” spiegherebbe il fatto che le intimidazioni degli alunni contro i professori siano più diffuse negli istituti tecnici e professionali che nei licei classici e scientifici.
Il problema, però, come ha fatto osservare qualcuno, è che questo presunto fatto è smentito da dei dati Istat del 2014 da cui risulta non solo che la situazione è assai più complessa ma che la vita nei licei è assai meno idilliaca di quanto Serra immagini. Ecco il punto: dando per scontato che in un breve articolo si è costretti a semplificare e che non si possono rappresentare adeguatamente certi fenomeni sociali molto articolati, da dove ha tratto Serra i suoi presunti dati di fatto e le sue generalizzazioni? L’impressione è che egli si sia limitato ad esprimere dei semplici luoghi comuni camuffandoli dietro un linguaggio pseudo-sociologico elaborato che addirittura mima le formulazioni scientifiche rigorose frutto di indagini empiriche accurate. Senza contare che è piuttosto facile trovare dei controesempi che smentiscono la proporzionalità diretta tra le sue variabili, che per taluni versi sembrano scelte un po’ a caso (i cosiddetti colletti bianchi non commettono crimini?).

Il punto che qui vorrei mettere in luce, però, è un altro. Tutta questa vicenda è un caso particolare di un fenomeno cui siamo esposti continuamente nel momento in cui i media, per catturare l’attenzione dei lettori, ricorrono al cosiddetto “perception management”, cioè la manipolazione della percezione di un fenomeno attraverso la sua presenza ossessiva nel flusso delle informazioni (chi volesse approfondire il concetto, può farlo attraverso un bel thriller a tema: “Nient’altro che la verità” di David Baldacci, un romanzo del 2008 uscito in Italia nel 2010). Si pensi a quando il nostro panorama percettivo è invaso da immagini di bambini siriani morti il cui scopo in genere è quello di preparare l’opinione pubblica ad accettare come inevitabili certi interventi militari punitivi contro il presunto carnefice. Analogamente, sfruttando certi automatismi inconsci della nostra mente, spesso i media si buttano a capofitto su un fenomeno riproducendolo ossessivamente e alterando la percezione dell’opinione pubblica, la quale è così indotta a vedere emergenze inesistenti. Il caso dei migranti e quello della violenza a scuola sono ormai tipici e tornano ad intermittenza secondo logiche diverse (elettoralistiche, economiche, ecc.). Secondo i dati più obiettivi, la cui consultazione è però non agevole, nelle società avanzate il bullismo e la violenza in generale sono in calo costante, per cui non c’è alcuna emergenza né nelle città né, a maggior ragione, a scuola. E tuttavia i media, quando vogliono, non solo possono farci sentire insicuri ma riescono a rappresentare la scuola come una sorta di trincea pericolosissima, con gli insegnanti tutti intenti a scrivere disperati versi ungarettiani e a fare testamento prima di entrare in classe.
Questo fatto, cioè l’enorme differenza che c’è tra la percezione indotta di un fenomeno e la sua reale portata in prospettiva storica è al centro di un’opera monumentale e controversa del celebre scienziato cognitivo americano-canadese Steven Pinker pubblicata nel 2011: “Il declino della violenza: perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia” (edizione italiana Mondadori 2013). Si tratta di un opera molto complessa e di non agevole lettura, perché contiene un numero impressionante di dati sulla violenza dalla preistoria umana ad oggi. Eppure la tesi è semplice: noi oggi viviamo nelle società mediamente più pacifiche, sicure, istruite e illuminate che la preistoria e la storia abbiano registrato. Certo, tale tendenza non è uniformemente distribuita, né si tratta di una legge inesorabile della storia. Il ritorno alla barbarie è sempre possibile e nessun destino codificato nei nostri geni, che pure favoriscono i comportamenti collaborativi, ci assicura che le cose andranno sempre così. Ecco un passo-chiave della prefazione: «devo convincervi che nel corso della storia la violenza è realmente diminuita, sapendo che questa sola idea suscita scetticismo, incredulità e, talvolta, collera. Le nostre facoltà cognitive ci predispongono a credere che viviamo in tempi violenti, specie quando sono alimentate da mezzi di comunicazione che seguono la parola d’ordine “if it bleeds, it leads”, se c’è sangue, fa notizia. La mente umana tende a valutare la probabilità di un evento dalla facilità con cui può ricordarne degli esempi, ed è più facile che entrino nelle nostre case e s’imprimano a fuoco nella nostra mente scene di massacri piuttosto che di persone che muoiono di vecchiaia. Non importa quanto la percentuale di morti violente possa essere bassa: in termini assoluti ce ne saranno sempre abbastanza da riempire telegiornali, con il risultato che le impressioni della gente sulla violenza non hanno alcun rapporto con le sue proporzioni reali».
Naturalmente nessuno è tanto ingenuo da abbandonarsi a facili ottimismi e sappiamo tutti che la violenza non è stata ancora debellata (ammesso che possa esserlo). E tuttavia è certo che chi specula su certe emergenze, costruendoci sopra persino carriere accademiche con pubblicazioni allarmistiche di nessun valore scientifico, è in malafede o, nella migliore delle ipotesi, vittima di illusioni cognitive. Una conferma della marginalità, per esempio, del bullismo a scuola è costituita proprio dal fatto che esso oggi provoca molta impressione presso l’opinione pubblica, ed è esattamente su questa suscettibilità che fanno leva i media confezionando ciclicamente notizie-merce su misura. È un meccanismo psicologico elementare ben noto agli esperti di marketing. In in una società violenta, infatti, un ragazzo un po’ isterico che minaccia un insegnante non farebbe notizia.

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