La trilogia di Harari sul mondo umano

     
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    Il 30 agosto, in contemporanea con l’edizione in inglese, è uscito in Italia per i tipi Bompiani “21 lezioni per il XXI secolo” dello storico israeliano Yuval Noah Harari (classe 1976). Si tratta del terzo volume di una sorta di trilogia sulla storia e sul futuro dell’uomo cominciata nel 2011 con “Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità” (traduzione italiana Bompiani 2014 e 2017) e proseguita nel 2015 con “Homo deus. Breve storia del futuro” (traduzione italiana Bompiani 2017), due best-seller planetari che hanno avuto come lettori e testimonial d’eccezione personalità del calibro di Barak Obama, Emmanuel Macron e Mark Zuckerberg.
    Che si tratti di un discorso unico in tre tappe lo dice chiaramente lo stesso Harari nell’Introduzione all’ultimo volume. Con “Sapiens”, infatti, Harari tracciava per grandi linee una storia globale della nostra specie al fine di mostrare come una varietà inizialmente piuttosto insignificante di scimmia fosse giunta a dominare il pianeta in poche decine di migliaia di anni. Con “Homo deus”, invece, egli si proiettava nel futuro per immaginare cosa potrà succedere al Sapiens quando le rivoluzioni informatiche e biotecnologiche in atto si saranno perfettamente integrate per dar vita a una nuova specie transumana. Con le “21 lezioni”, invece, Harari affronta un ampio discorso sul presente e sull’immediato futuro attraverso una serie di tematiche-chiave che rimandano alle principali forze scientifiche, ideologiche e sociali che modellano e guidano il nostro tempo.
    In questa nota proporrò una rapida sintesi dei tre corposi volumi al fine di mostrare come questo giovane professore del Dipartimento di Storia della Hebrew University di Gerusalemme, con dottorato a Oxford, sia diventato meritatamente uno degli intellettuali più influenti al mondo.

    L’epopea della scimmia nuda
    “Sapiens” racconta in modo insieme rigoroso e brillante le tre rivoluzioni che hanno portato una specie apparentemente senza particolari qualità a diventare padrona del pianeta: la rivoluzione cognitiva, che si può far risalire a circa 70.000 anni fa; quella agricola, avvenuta intorno a 12.000 anni fa, e infine quella scientifica, che ha appena cinque secoli. Si noti, però, che Harari si guarda bene dal considerare la storia del Sapiens come una marcia trionfale verso il progresso e il miglioramento. Non c’è nulla di provvidenzialistico nella sua concezione della storia, e anzi tra le pagine più efficaci del libro ci sono proprio quelle in cui egli mostra che la rivoluzione agricola non è stata proprio un grande affare dal punto di vista della nostra salute, delle nostre abilità e alla fine delle nostra stessa “felicità”, qualunque cosa indichi questa parola. Quello che è certo è che Homo Sapiens è la specie più distruttiva che sia apparsa nell’albero della vita. Dove arriva lui, gli ecosistemi subiscono delle trasformazioni radicali e irreversibili e vengono a crearsi degli squilibri che hanno addirittura del grottesco. Si pensi ai grandi predatori. Un tempo il Sapiens ne era terrorizzato e costituivano una grande minaccia alla sua sopravvivenza come specie. Oggi, invece, i grandi predatori sono quasi estinti e il Sapiens, quando non li usa come patetici pagliacci da circo, li confina in riserve molto redditizie, dal momento che diversi turisti amano il brivido di andarli a filmare e fotografare in azione in safari organizzati dalle agenzie turistiche. In compenso, il Sapiens ha moltiplicato a dismisura la versione addomesticata e geneticamente manipolata di animali che altrimenti avrebbero scarse possibilità di raggiungere cifre significative in termini di popolazione, come pecore, polli, conigli, maiali e mucche. E perché è avvenuto questo? Semplicemente perché questi animali sono utilissimi all’uomo come fonte di cibo. Paradossalmente, osserva Harari riecheggiando Richard Dawkins, potremmo dire che il genoma egoista del pollo ha trovato in noi un ottimo alleato (si potrebbe anche dire una parte importante del suo fenotipo esteso, con il permesso del nostro orgoglio antropocentrico) per riprodurre sempre più copie di se stesso, dal momento che oggi manteniamo in vita circa 25 miliardi di polli, oltre il triplo degli esseri umani. Il prezzo che questi poveri animali pagano al successo clamoroso del loro genoma in termini evoluzionistici (rispetto per esempio a quello delle tigri) è la loro vita miserrima negli allevamenti industriali.
    Ma a cosa è dovuto questo potere del Sapiens? La risposta di Harari è una versione personalizzata di varie ipotesi che circolano da tempo nella letteratura scientifica. Il Sapiens è l’unica specie in grado di organizzare in modo flessibile gruppi grandi a piacere. Gli scimpanzé, per esempio, sanno agire in gruppi flessibili, ma tali gruppi sono molto ristretti e richiedono la conoscenza diretta (uno scimpanzé, per quel che ne sappiamo, non organizza un banana-party invitando membri di altri gruppi che non ha mai visto prima); viceversa, animali sociali come le formiche sanno agire in gruppi enormi, ma tali gruppi mancano di flessibilità perché troppo specializzati (se insorge un problema ambientale, le formiche non ammazzano la regina per instaurare una repubblica democratica). Questa abilità duplice, azione in gruppo e flessibilità, si accompagna nel Sapiens con il linguaggio e l’immaginazione, che gli consentono di costruire enti finzionali come divinità, città, stati, denaro e multinazionali, ovvero una realtà culturale condivisa che si affianca a quella oggettiva e la trasforma profondamente. Come Harari dice con una battuta spiritosa, puoi andare da una scimmietta e proporle di scambiare la sua banana con un’altra cosa a lei gradita, ma non puoi chiederle di darti la sua banana «promettendole che nel paradiso delle scimmiette, dopo morta, avrà tutte le banane che vorrà» (cap. 2, ebook). Solo il Sapiens, dobbiamo ammetterlo, è fatto in modo tale da riuscire a credere in una promessa del genere.

    Uomini divini e uomini irrilevanti
    In “Homo deus” Harari riepiloga le conquiste del Sapiens raccontate nel libro precedente e si chiede quali progetti abbia ancora la nostra specie dopo essere riuscita a tenere sotto controllo piaghe endemiche come le carestie, le pestilenze e le guerre. A suo parere il XXI secolo darà inizio al tentativo di realizzare tre grandi sogni: la sconfitta della morte, la felicità e la divinità. Naturalmente queste sono parole grosse, ma la scienza è già in grado di concepire il modo in cui ridimensionare questi sogni antichi e renderli praticabili. A tal proposito, senza entrare nell’intricato racconto di Harari, è possibile enucleare i due punti forse più importanti del suo discorso futurologico.
    Il primo riguarda la possibilità di andare oltre il Sapiens per creare una specie superiore, appunto “divina”. È il sogno transumanista che oggi comincia a diventare in parte realizzabile, dal momento che i progressi rivoluzionari nel campo dell’informatica e della biologia possono integrarsi per agire sul corpo umano espandendone le capacità in modi che oggi possiamo a stento immaginare. In particolare, le biotecnologie consentono manipolazioni genetiche in grado di modificare il genoma umano in direzioni ancora ignote, mentre l’ingegneria biomedica può potenziare il corpo umano grazie alla sua integrazione con componenti artificiali a qualsiasi livello, da quello scheletrico e muscolare, con espansione delle capacità motorie, a quello neuronale, con espansione delle capacità mentali. L’“homo deus” sarà il risultato di tutto ciò e il nostro compito è quello di cercare di prevedere e valutare trasformazioni di portata così rivoluzionaria per la nostra specie, prima che al nostro posto lo faccia qualcuno animato da intenzioni tutt’altro che “umanistiche”.
    Il secondo punto riguarda il grave problema politico, sociale e pedagogico di cosa fare con le masse sempre più consistenti di persone “irrilevanti”. Questo punto sta molto a cuore ad Harari e nel nono capitolo offre un quadro agghiacciante della situazione che si va profilando. Citando uno studio del 2013 sul futuro del lavoro, Harari osserva che, secondo certe stime, a partire dal 2033 il 47% dei lavori negli Stati Uniti (e non solo) è ad alto rischio. In particolare, è molto probabile che degli algoritmi informatici sostituiranno venditori telefonici, agenti assicuratori, cronisti sportivi, cassieri, chef, camerieri, assistenti paralegali, guide turistiche, fornai, autisti di autobus, lavoratori edili, assistenti veterinari, guardie di sicurezza, marinai, baristi, archivisti, carpentieri, guardie del corpo, ecc. È anche vero che nel contempo sorgeranno nuovi lavori, per esempio nel campo della progettazione di mondi virtuali, ma il problema è se i cassieri e i fornai quarantenni usciti dal mercato del lavoro riusciranno a reinventarsi come progettisti di realtà virtuale. Sul piano pedagogico, questo vuol dire che «già oggi non abbiamo la più pallida idea di cosa insegnare ai nostri figli. La maggior parte di ciò che essi imparano oggi a scuola sarà con ogni probabilità irrilevante per quando avranno quarant’anni» (pp. 495-496). Non solo. Siccome la tecnologia consentirà forse di nutrire e sostenere queste “masse inutili” (magari con l’ausilio del famoso reddito di cittadinanza), sorgerà il problema politico e sociale di come impiegarle per non condannarle alla follia dell’inazione, ovvero alle droghe e ai giochi al computer. Scenari del genere segnerebbero la fine del liberalismo e della democrazia, perché le società si fonderebbero fondamentalmente su due caste sociali: una élite ricca che avrà accesso ai miracoli delle biotecnologie e sarà quindi anche fisicamente e intellettualmente “superiore”, e una massa di derelitti mantenuti e addomesticati con «esperienze artificiali di un Paese dei balocchi psichedelico e ipertecnologico» (p. 496).

    Il potere della lucidità
    Nella penultima pagina di “Homo deus”, Harari osserva che «in passato, la censura operava bloccando il flusso delle informazioni. Nel XXI secolo la censura opera inondando la gente di informazioni irrilevanti. (…) Nei tempi antichi deteneva il potere chi aveva accesso alle informazioni. Oggi avere potere significa sapere cosa ignorare» (p. 603). Ebbene, le “21 lezioni per il XXI secolo” prendono le mosse proprio da questo punto, tant’è vero che l’Introduzione comincia con parole molto simili: «In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere». Ma come si fa a prendere parte al dibattito sul futuro dell’umanità? Come nota Harari, la maggior parte delle persone non può permettersi questo lusso, perché è costretta a passare gran parte del proprio tempo a guadagnarsi da vivere, a prendersi cura dei figli e ad assistere i genitori anziani. Ecco allora che gli intellettuali possono dare un contributo per “appianare gli squilibri nel gioco globale” cercando di fare un po’ di chiarezza nella Babele di informazioni che ci investe ogni giorno e di indicare alcune tematiche essenziali su cui concentrare l’attenzione. In questo suo ultimo libro Harari ne propone 21, che nell’ordine sono: la disillusione sulla fine della storia, il lavoro (nel senso visto in precedenza), la libertà dai Big Data, l’uguaglianza, la comunità, la civiltà, il nazionalismo, la religione, l’immigrazione, il terrorismo, la guerra, l’umiltà, Dio, il laicismo, l’ignoranza, la giustizia, la post-verità, la fantascienza, l’istruzione, il senso della vita e la meditazione.
    Per aiutare il lettore ad orientarsi in un quadro sul presente di così ampio respiro, Harari ribadisce alla fine dell’Introduzione e soprattutto nel primo capitolo la propria posizione rispetto alle grandi narrazioni politico-ideologiche della modernità, già messa in chiaro nei due libri precedenti. La sua “perplessa” filosofia della storia (l’umiltà del perplesso è esplicitamente contrapposta all’arroganza del catastrofista nel primo capitolo), che potremmo definire “debole” o post-moderna in un senso nuovo, si può sintetizzare così: le narrazioni fasciste e comuniste subentrate a quelle teocratiche sono morte per fallimento nel XX secolo e quella liberaldemocratica le ha soppiantate, presentandosi come portatrice dei migliori sistemi politici e sociali mai realizzati dall’uomo fino a questo momento. Ma anch’essa è entrata oggi in crisi ed è nostro compito o migliorarla o sostituirla con una che reputiamo migliore, prima che lo facciano a modo loro le élite in grado di accedere in via esclusiva al nuovo potere biopolitico reso disponibile dalle rivoluzioni informatiche e biologiche.
    Vale la pena soffermarsi, in conclusione, su uno dei capitoli che affrontano tematiche assenti nei libri precedenti. Il capitolo 17 riguarda la questione della cosiddetta post-verità, emersa prepotentemente in questi ultimi anni soprattutto in seguito alle azioni militari di Putin in Crimea e in Ucraina e all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Harari osserva che, secondo una narrazione di comodo, noi oggi saremmo nell’epoca della post-verità a causa dello sciame incontrollato di fake news che circola su internet, come se prima dell’avvento della rete e in particolare dei social network l’umanità vivesse in un Eden rischiarato ovunque dalla luce trionfale della verità. Ma è questa, a sua volta, una pericolosa falsità che amano raccontare soprattutto i nostalgici dei vecchi sistemi di controllo dell’informazione. Come spiegato ampiamente in “Sapiens”, l’uomo stesso è una “specie post-verità”, perché la sua forza risiede proprio nella sua capacità di raccontarsi storie inventate per cooperare in vista del raggiungimento di obiettivi precisi. Anzi, in passato le fake news duravano secoli, mentre oggi, proprio grazie alla rete, esse hanno scarse possibilità di sfuggire a una rapida smentita. A tal proposito egli cita le grandi religioni, tutte basate su narrazioni fantasiose che hanno permesso agli uomini di aggregarsi efficacemente in gruppi coesi, e le aggressioni militari, quasi sempre basate su menzogne sfacciate. E vale la pena sottolineare il suo coraggio quando, da cittadino israeliano, non solo cita le narrazioni medievali che hanno giustificato l’antisemitismo occidentale, ma ricorda anche che lo stesso Stato di Israele si fonda su una risibile narrazione mitologica che addirittura, in taluni casi ai massimi livelli istituzionali, arriva a negare persino l’esistenza stessa dei palestinesi.
    Quello che invece dovremmo imparare a fare, sostiene infine Harari, è confrontare narrazioni per scegliere le meno nocive e attingere alle fonti più affidabili, accettando di pagare il giusto per le informazioni importanti (per evitare di essere noi stessi il prodotto dello scambio) e abituandoci a rivolgerci alla letteratura scientifica più accreditata sui temi che ci stanno maggiormente a cuore.

    2 Commenti

    1. La solita menzogna del serpente antico, non perdo nemmeno tempo a leggere tutto quanto il mattone che hai scritto, anzi no, masso… o è meglio dire “massone”!
      “Allora il serpente disse alla donna: «Voi non morrete affatto; ma DIO sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno, E SARETE COME DIO, conoscendo il bene e il male».” (Genesi 3:4-5)

      L’uomo non è mai stato una scimmia (ci sono quelli che somigliano alle scimmie, ma quello è un altro discorso, lol), Dio ha creato l’uomo a SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA, non delle scimmie!
      “Poi DIO disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutta la terra, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Così DIO creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di DIO; li creò maschio e femmina.” (Genesi 1:26-27)

    2. Anzi no, ho letto quanto basta per rivoltarmi lo stomaco, le fake news innanzitutto sono quelle che divulghi tu e tutti i tuoi autori preferiti, poi parla uno che fa parte dello stato più criminale del mondo: ISRAELE che uccide i Palestinesi ed è responsabile di tutte le guerre e gli attentati false flag del mondo. Da vomito.

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