Le invasioni sbagliate e i migranti di Chen He

 
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Immagine di copertina del libro "A modo nostro" di Chen He, edito da Sellerio

Il girotondo dei container
Gela. «Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell’aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l’uno sull’altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l’uno con l’altro. Ecco dove erano finiti».
Come in molti ricorderanno, quello appena letto è il memorabile incipit di “Gomorra” di Roberto Saviano, pubblicato per la prima volta da Mondadori nell’aprile del 2006. Saviano continuava la sua pagina agghiacciante informandoci che tutto ciò gli era stato raccontato da un gruista del porto di Napoli, che per la vergogna si copriva la faccia con le mani e piagnucolava. La scena incredibile apriva uno squarcio sul modo in cui certi cinesi emigrati facevano ritorno a casa, dopo aver lavorato in Italia o in altri paesi europei: «[s]i facevano trattenere una percentuale dal salario, in cambio avevano garantito un viaggio di ritorno, una volta morti. Uno spazio in un container e un buco in qualche pezzo di terra cinese».
Questo luogo ormai classico mi è tornato subito in mente appena ho cominciato a leggere il romanzo “A modo nostro” di Chen He, appena pubblicato da Sellerio ma uscito in lingua originale in Cina nel 2012. Anche Chen He (classe 1958) è un cinese emigrato. Viene dalla città di Wenzhou, sulla costa del sud-est della Cina, provincia dello Zhejiang. Giunto a Tirana nel 1994, ha vissuto l’esperienza del rapimento a scopo di riscatto e nel 1999 si è trasferito a Toronto, dove vive tuttora con la famiglia. Queste informazioni biografiche, come vedremo, sono molto utili per capire il romanzo, che si apre con l’arrivo del protagonista a Parigi nel 1993. Xie Qing, un autotrasportatore poco più che quarantenne di Wenzhou, solo una settimana prima non avrebbe mai immaginato che di lì a poco sarebbe finito in Francia, convocato per riconoscere il cadavere di Yang Hong, la trentanovenne ex moglie morta in un incidente stradale nei pressi di Parigi. Nel suo ultimo giorno di lavoro come camionista, Xie Qing «aveva ricevuto l’ordine di scaricare container al porto di Dongwan». Siamo verso la fine del primo capoverso e la parola “container”, che mi ha fatto pensare a “Gomorra”, tornerà nel romanzo solo un’altra volta, a pagina 115, quando, ad Atene, un certo Mok Yeun-chiu spiegherà a Xie Qing come funziona il traffico di esseri umani, cui la sua nuova amica Qiumei, apparentemente solo a capo di una catena di ristoranti a Parigi, intende introdurlo: «Ormai mi sono ritirato dal giro e vivo da recluso qui ad Atene. E poi i metodi che usavo una volta non funzionano più, ora chi si occupa di questi traffici ha a disposizione una gamma di soluzioni sempre più ampia. C’è chi trasporta i clandestini via nave, chi li infila di straforo nei container…».
Ecco come, da Saviano a Chen He, il cerchio dei container, ovvero il ciclo vita-morte di certi migranti cinesi, finalmente si chiude e ricomincia.

Qualche dato
Per quanto certi politici possano continuare ad agitare lo spauracchio dell’invasione dall’Africa per puro interesse elettoralistico, spingendo cinicamente le persone a confondere la percezione soggettiva di un fenomeno con la sua dimensione oggettiva, ovvero a soffiare ignobilmente sulle paure più ancestrali, i dati dicono che non stiamo assistendo ad alcuna invasione. Come nota per esempio il giornalista francese Bernard Guetta in un articolo uscito il 27 giugno scorso su “Internazionale” on line, i numeri forniti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ci dicono che «tra il 2015, all’apice della tragedia siriana, e lo scorso anno il numero dei migranti sbarcati sulle coste europee è passato da più di un milione a 172 mila, per una popolazione europea che supera i 500 milioni. Quest’anno siamo arrivati appena a 44 mila migranti». Non c’è, dunque, alcuna invasione in atto dal sud povero del mondo al nord ricco. Semmai ci sono disperati che cercano un’opportunità e che per farlo mettono a rischio la loro stessa vita; e come se questo non bastasse, devono pure scontrarsi con un doppio pregiudizio: quello sociale contro gli affamati e quello razziale contro i neri.
Una prova ulteriore di tutto ciò è fornita dal nostro atteggiamento ben diverso nei confronti di chi non solo non arriva in Europa a bordo di navi di disperati ma è tutt’altro che povero e, anzi, mira ad occupare spazi vitali nel tessuto economico-produttivo del luogo di destinazione. Se guardiamo i dati sugli stranieri presenti in Italia al 2017, facilmente reperibili in rete, possiamo notare alcune cose interessanti. In Italia risiedono poco più di 5 milioni di stranieri. Di questi, più di un milione e mezzo (oltre il 23%) proviene dalla Romania, che non è un paese extracomunitario; al secondo posto troviamo gli albanesi, poco meno di mezzo milione (quasi 9%); al terzo posto ci sono gli oltre 400 mila marocchini (poco più dell’8%). Come si vede, si tratta di paesi relativamente vicini al nostro, che nulla hanno a che fare con i famosi barconi che partono dalla Libia e che in questi giorni, grazie anche alla grancassa politico-mediatica, sembrano ossessionarci. E chi è che occupa il quarto posto? Sono i poco meno di 300 mila cinesi (circa 5,5%), che quasi nessuno – parecchio a torto – percepisce come “invasori”, forse perché non sono né poveri né neri. Questo ci riporta al romanzo di Chen He.

L’apprendistato criminale di Xie Qing
Il grande interesse di un romanzo come “A modo nostro” non sta solo nella sua innegabile qualità intrinseca, percepibile pur nei limiti di ciò che si può valutare in una traduzione italiana dal cinese. La storia è molto ben costruita, e gran parte dei quattordici capitoli raccontano in maniera alternata le “vite parallele” di Xie Qing e di Yang Hong a partire dalla loro infanzia a Wenzhou e passando per il loro matrimonio nel 1985, finito nel 1990 con l’improvvisa partenza per Parigi di Yang Hong, che da giornalista diventerà una venditrice ambulante sulla spiaggia di Angoulins. La vita di Yang Hong incrocia, grazie al padre, la Rivoluzione maoista e, come detto, si ferma nel 1993 dentro una macchina uscita di strada e finita dentro un fiume, in un momento in cui la donna, da poco diventata madre, era sotto la protezione di un club di compatrioti influentissimi piazzati ai massimi livelli della diplomazia e dell’imprenditoria cinesi. Quella di Xie Qing è seguita fino al 2003, quando questi è ormai un uomo d’affari braccato e in declino arricchitosi con il traffico di esseri umani e il riciclaggio del denaro sporco in attività di copertura come ristoranti, agenzie di viaggi e hotel.
Il romanzo, però, costituisce per noi soprattutto un’esperienza intellettualmente insolita e stimolante, perché abbiamo l’opportunità di vedere noi stessi dal punto di vista dei cinesi che vengono in Europa. Come ci vedono? Cosa fanno? Chi sono? Chen He conosce così bene il fenomeno dell’emigrazione cinese che può offrirci un quadro realistico estremamente articolato ed efficace, privo di qualsiasi retorica edulcorante. Il mondo che racconta è feroce e culmina nell’incidente del 1994 avvenuto nel canale di Otranto, quando una nave di clandestini imbarcatisi in Albania e provenienti dalla Cina e da altri paesi asiatici si scontrò con una nave della marina italiana e un centinaio di persone trovarono la morte in mare.
È impossibile qui dare conto della ricchezza della trama del romanzo, piena di storie e personaggi secondari. Basti dire che il particolare momento storico in cui esso vede la luce nel nostro paese influenza la percezione del lettore e così sembra che vi predomini nettamente l’apprendistato criminale di Xie Qing, che da umile autotrasportatore di provincia diventa prima capo dello smistamento dei clandestini in Europa con base in Albania (dove viene anche rapito e liberato dietro pagamento di un riscatto, proprio come l’autore) e poi imprenditore di successo tra Parigi e Wenzhou.
Per capire quanto sia miope e semplicistica la narrazione sui migranti oggi in voga per scopi di consenso politico, basta vedere il primo capoverso del nono capitolo, dove c’è una fotografia drammaticamente attuale della situazione così come si presentava un quarto di secolo fa: «Valona, sulla costa albanese, si affaccia sull’Adriatico ed è separata dall’Italia solo da un braccio di mare: da Lecce, la città italiana più vicina, dista una manciata di miglia che in motoscafo si possono coprire in poche decine di minuti. È una zona con dense macchie di ulivi, dove crescono limoni, uva e fichi. Grazie alla sua posizione di crocevia tra Europa orientale e occidentale e al fatto che frontiere e dogane ormai esistevano soltanto di nome, il trasbordo illegale di persone verso l’Italia era diventato il settore portante dell’economia cittadina. Dalla Turchia, dall’Europa dell’Est, dall’Asia, a migliaia erano approdati in Europa occidentale attraverso quello stretto. Il business dell’immigrazione clandestina aveva concentrato in quella zona una grande quantità di capitali, alimentando anche il traffico di droga e il contrabbando di armi. Cellule della mafia italiana si erano prontamente sviluppate anche lì, facendo di Valona la Sicilia albanese» (p. 207). Anche le orde di migranti di Chen He sono sottoposte a furti sistematici e ad estorsioni da parte della criminalità organizzata che ne controlla e protegge gli spostamenti dalla Cina e da altri paesi orientali all’Albania, e chi li finanzia si assicura una percentuale sui loro salari futuri, con introiti favolosi che poi vengono reinvestiti in attività legali e alla luce del sole, come i tre ristoranti parigini che da un giorno all’altro vengono intestati a Xie Qing da Qiumei, “la madrina del traffico di clandestini” (p. 328).
Il lettore italiano, alla fine, esce dalla lettura di “A modo nostro” con un senso di disagio e con il sospetto che a dominare il dibattito pubblico siano, in questi giorni di politica improvvisata e di corto respiro, le “invasioni” sbagliate.

2 Commenti

  1. Ma quanto ti rode Marco Trainito la giustizia e l’onestà di un governo per il popolo italiano? Tanto quanto rode alla tirannia UE, alle lobby LGBT, alla Germania, alla Francia, alle lobby farmaceutiche, ai sionisti, al vaticano e i gesuiti, eccetera eccetera…

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