L’esordio letterario di Rosario Di Natale

     
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    La copertina del libro di Rosario Di Natale "Gelidi spifferi nell'anima"

    Dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso ho l’onore, insieme a pochissimi altri, di accedere alle opere inedite di Rosario di Natale, uno scrittore gelese che alla vanità ansiosa di pubblicare ha anteposto cocciutamente il piacere tormentato della riscrittura infinita.
    Di Natale ha insegnato Educazione fisica per tutta la sua vita lavorativa e da giovane è stato uno dei migliori velocisti a livello agonistico che la nostra città abbia mai avuto. Negli anni Settanta pubblicò due volumi di scienze motorie e medicina dello sport, mentre negli ultimi quarant’anni è rimasto chiuso in un silenzio ostinato, interrotto ogni tanto da qualche sporadico intervento giornalistico. Nel corso di tutti questi anni Di Natale ha cambiato pelle, dedicandosi a letture intense e alla scrittura di romanzi, aforismi, testi teatrali e sceneggiature cinematografiche. Oltre che alla letteratura e alla filosofia, il suo interesse principale è rivolto alla psicologia, e in particolare a tutto ciò che riguarda la psicoanalisi. Sono certo, peraltro, di aver visto parecchi anni addietro proprio a casa sua per la prima volta “L’Anti-Edipo” di Deleuze e Guattari, uno dei testi-chiave per comprendere i temi di fondo della sua produzione. Il mio primo contatto con lui risale a oltre trent’anni fa, quando, tramite un suo intimo amico che è anche un mio zio, mi diede in lettura una sua opera teatrale. Avendogli poi mandato delle impressioni critiche per iscritto, siamo diventati amici e da allora mi dà in lettura tutti i suoi lavori man mano che li va scrivendo e riscrivendo.
    Dall’aprile scorso, però, il privilegio di conoscere la complessa e tormentata opera completa di un autore sconosciuto quasi a tutti è finito, perché Di Natale si è deciso finalmente a dare alle stampe un suo lavoro teatrale. Si tratta di “Gelidi spifferi dell’anima”, pubblicato dalla casa editrice Aletti di Roma nella collana “Il Sipario”. Quest’opera, che si può leggere anche come un romanzo breve, è abbastanza rappresentativa del mondo poetico di Di Natale, perché contiene molte delle sue ossessioni estetico-filosofiche. In sintesi, la sua idea di fondo, chiaramente dostoevskiana, è che l’arte e la bellezza siano gli unici strumenti di riscatto per l’uomo, sicché il loro oblìo ci condanna a una miseria spirituale senza rimedio intrisa di ferinità primitiva e dolore irrisolto. Nei suoi lavori creativi questa idea prende forma attraverso la rappresentazione di personaggi che fanno i conti con le conseguenze tragiche di una vita vissuta o voltando le spalle alla bellezza o cercando di raggiungerla con mezzi inadeguati. In un romanzo inedito, di cui conosco almeno tre versioni, Di Natale indaga lo scontro catastrofico, da cui scaturiscono morte e follia, tra uno stile di vita borghese e l’epifania del bello sotto le sembianze dell’eterno femminino.

    Siffatta concezione di fondo ha delle conseguenze precise sullo stile di Di Natale. La sua lingua è estremamente levigata e controllata, e mira a una “classicità” di tono che la pone al riparo sia da cadute nel registro volgare sia da complessi barocchismi sintattici ed espressivi; il turpiloquio, i tecnicismi e i sofismi sono banditi e la “misura” della sua prosa è costituita dall’aforisma, dal detto sentenzioso che scolpisce con semplicità ed eleganza un concetto o un’immagine. Gli stessi personaggi sono di solito privi di determinazioni storico-geografiche e appaiono piuttosto come l’incarnazione di un’idea, di una maschera filosofica, insomma di ciò che Milan Kundera indicava come quella precisa situazione problematica ed esistenziale che definisce l’essenza di una creatura letteraria. In tal senso, il corposo saggio “L’albero e le sue radici” in quattro parti (Arti e letteratura, Politica, Religione e morale, Filosofia e scienze), scritto in forma di intervista e ancora in fase di completamento, nonché il grosso volume in due tomi in cui sono raccolti migliaia di aforismi, che ho avuto la possibilità di leggere negli anni passati e a cui Di Natale ha affidato il ruolo di “summae” della sua visione del mondo, costituiscono il serbatoio cui attingere per dare la parola ai personaggi nei momenti cruciali del loro sviluppo narrativo.
    Il titolo stesso del dramma in due atti appena uscito, sottoposto all’ennesima riscrittura prima di essere consegnato all’editore, allude proprio alla desolazione spirituale di un mondo sociale che ha rinnegato la bellezza. Come accade in altri lavori, Di Natale mette in scena una famiglia dell’alta borghesia imprenditoriale e indaga, con spietatezza psicologica martellante, la ferocia di una classe sociale che, dietro il paravento delle forme e della rispettabilità, nasconde una vita condotta all’insegna dell’egoismo più turpe e dell’odio reciproco più implacabile, che non risparmia nemmeno i legami di sangue più intimi. Anzi, sono proprio i rapporti familiari ad essere messi a nudo dallo sguardo psicoanalitico di Di Natale, perché è nella famiglia borghese, dominata dalla logica inesorabile del profitto, che il tradimento della bellezza metafisica si realizza compiutamente, lasciando scoperto il verminaio che domina nella dimensione puramente predatoria della vita umana.
    I due atti del dramma si svolgono per intero nel soggiorno-salotto della casa dei Cravali, una famiglia di ricchi imprenditori. Qui entrano ed escono il “pater familias” Carlo, la moglie-matrona Eloisa, i loro figli Davide ed Eleonora, il bancario Leonardi, il vescovo e l’ex nemico di affari Brando. Dai dialoghi spesso insulsi, perché dietro un lessico familiare sentimentale improntato a un vieto formalismo mascherano spesso verità nascoste inconfessabili, si capisce che i rapporti tra i membri di questa famiglia sono estremamente tesi e che l’ipocrisia sociale fa sempre più fatica a contenere la violenza repressa. Qui è messa in scena una precisa convinzione di Di Natale sul ruolo performativo del linguaggio anche nella conversazione ordinaria: il semplice parlarsi tra membri della stessa famiglia può generare conflitti tanto più insanabili quanto più si allenta il controllo sulle parole e ci si lascia parlare dai loro stessi automatismi socialmente condizionati. È a quel punto che le regole della guerra verbale spingono inesorabilmente a pronunciare parole dagli effetti fatali sulla psiche e sulle relazioni affettive.
    C’è Davide che torna ricco dall’America dopo dieci anni di assenza e dopo essere stato coinvolto in uno scandalo sessuale e in un omicidio; c’è il suo conflitto edipico col padre, che è sull’orlo di una crisi di nervi perché la sua azienda naviga in cattive acque e i sindacati non vogliono piegarsi alle sue condizioni per uscire dalla crisi; c’è la madre, che cerca di fungere da mediatrice del conflitto ma che finirà per rivelare una personalità meschina e calcolatrice; e c’è, infine, la giovane Eleonora, che sembra la tipica figlia assennata e desiderosa solo di corrispondere alle aspettative dei genitori, ma che poi si renderà protagonista del più classico dei gesti di ribellione scandalosa alle regole soffocanti del suo ceto sociale.
    Nella poetica di Di Natale, tutta questa miseria morale e spirituale è riconducibile a una colpa d’origine: il tradimento della bellezza in nome del perseguimento del potere e della ricchezza. In particolare, i portatori di questo vero e proprio “miasma” da tragedia greca sono qui Davide e la madre: il primo per aver rinunciato all’amore di una donna bellissima per diventare un imprenditore di successo nel ramo dell’editoria, e la seconda per aver rinunciato a una carriera come modella per sposare un ricco imprenditore e dargli una discendenza. In un quadro di desolazione irrimediabile come questo, il colpo di scena non potrà che essere un colpo di pistola catartico che risuona sinistro e scaraventa un corpo morto in scena.
    Come si diceva, si tratta di un testo godibile anche come opera narrativa, ma è ovvio che il suo destino è quello di essere messo in scena. È quello che auguriamo a Rosario, oggi sia uomo millenario per età e letture sia scrittore finalmente esordiente.

    Marco Trainito, filosofo e saggista

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