L’omossesualità, la chiesa e la mafia, Crocetta si racconta in “E io non ci sto”

 
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Palermo. Quando fu eletto sindaco di Gela sulla stampa spuntarono titoli che lo indicavano come il «primo sindaco gay d’Italia». Da allora per Rosario Crocetta quello della diversità è stato un tema ricorrente.

Ma non solo per il suo orientamento sessuale, che confessa di vivere soprattutto in una dimensione spirituale, ma anche per la sua storia segnata da un forte impegno antimafia e da una lotta senza quartiere al malaffare, alle clientele, alla corruzione. Ora che la sua proiezione pubblica è aumentata come presidente della Regione Sicilia, Crocetta rilegge i suoi percorsi di vita in un libro che ha la forma di un diario pubblico, «E io non ci sto», edito da Longanesi (192 pagine) e curato da Sergio Nigrelli, da domani in vendita in libreria.

È una riflessione meditata che non lascia spazio a grandi rivelazioni: in fondo, di Crocetta si sa quasi tutto perchè sin dall’inizio ha scelto di fare i conti con se stesso. Prima da studente e poi da operaio dell’Eni quando volle conciliare la sua formazione cattolica con la militanza politica nel Pci: due chiese nelle quali ha sempre difeso la sua diversità intesa come valore etico. Come quella volta in cui si sentì dire da un dirigente della sezione comunista che per il partito la sua omosessualità era uno «scandalo».

Alla base di tutto Crocetta ha posto una visione etica dei rapporti con la politica, con la società, con la Chiesa e con la mafia. Ha pagato costi molto alti all’orgoglio che gli fa dire: «E io non ci sto». Più di una volta la polizia ha scoperto piani per ucciderlo. Non per questo, scrive Pietro Grasso nella prefazione scritta in forma di lettera personale, ha rinunciato alle «lotte spesso solitarie contro il pizzo, gli appalti truccati e i subappalti mafiosi» nè alle denunce contro il malaffare della politica. Così è diventato, sottolinea Grasso, il «gran sacerdote di un rito innovativo» che costituisce un «modello sperimentale da imitare anche a livello nazionale».

La ricetta è improntata a grande semplicità come il cosiddetto «metodo Crocetta» applicato agli appalti e fatto di buon senso: certificazione antimafia delle Prefetture e non delle Camere di Commercio pretesa anche dalle ditte aggiudicatarie di subappalti; impiego di personale immune da precedenti per reati di mafia. E poi l’attenzione a tenere insieme le ragioni dello sviluppo con quelle della legalità.

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