Mendola ucciso, procura impugna assoluzione Cauchi: per pm ordinò omicidio

 
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Il capannone abbandonato dove venne trovato il cadavere di Mendola

Novara. Era più che probabile e a fine luglio la procura di Novara ha confermato di aver impugnato la sentenza di assoluzione, che nel novembre di un anno fece cadere le pesanti accuse mosse all’imprenditore edile gelese Giuseppe Cauchi. Per i pm novaresi, è lui il mandante dell’omicidio del trentatreenne Matteo Mendola. Il corpo del giovane gelese, da tempo residente in provincia di Varese insieme alla famiglia, venne ritrovato nell’aprile di tre anni fa tra i boschi della frazione di Pombia, nei pressi di un capannone abbandonato. Venne ucciso a colpi di pistola. Il calcio dell’arma e probabilmente una vecchia batteria da auto furono usati per finirlo, fracassandogli il cranio. I pm novaresi non concordano con le motivazioni che hanno indotto i giudici della Corte d’assise di Novara ad emettere una sentenza di assoluzione. Sarà la procura generale, in Corte d’assise d’appello a Torino, a sostenere l’accusa contro Cauchi, chiedendo che la decisione di primo grado venga ribaltata. Le motivazioni della decisione di primo grado sono state depositate lo scorso aprile. Secondo i giudici di Novara, Cauchi sarebbe stato accusato solo per un “calcolo” e anche la versione ritrattata dal killer reo confesso Antonio Lembo (che subito dopo l’arresto chiamò in causa l’imprenditore) non li ha convinti, portandoli a pronunciare l’assoluzione, come chiesto dai difensori dell’imputato, gli avvocati Flavio Sinatra e Cosimo Palumbo. Hanno sempre sostenuto che l’imprenditore non avesse ragioni per ordinare la morte del trentatreenne.

Per gli investigatori, invece, ci sarebbero stati motivi anche economici. Il pm Mario Andrighi ha spinto per impugnare la decisione dei giudici, ritenendo invece che il quadro accusatorio sia stato confermato durante l’istruttoria dibattimentale. Ad ammazzare Mendola, dopo averlo attirato in quella zona isolata, sarebbero stati lo stesso Lembo (che ha subito confessato) e Angelo Mancino. In abbreviato, sono stati condannati a trenta anni di detenzione, con conferma in appello (i legali si sono rivolti alla Cassazione). I familiari di Mendola sono parti civili in entrambi i filoni processuali. Ora, si attende la fissazione dell’udienza di secondo grado, davanti ai giudici d’assise di Torino.

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