Moti contro i piemontesi: pugnalatori tra le strade di Palermo

 
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Gela. La Sicilia, subito dopo l’unificazione del regno d’Italia, si accorge che i dittatori Savoia, sono peggio della dittatura Borbonica che avevano combattuto e per ripristinare un nuovo Stato democratico, bisognava combattere i tiranni Savoia. Quello che succede, la notte del primo di ottobre del 1862 a Palermo, ha questo obiettivo. Provocare le reazione dello Stato Savoiardo con la relativa contro reazione dei siciliani per cacciare i piemontesi dall’isola: Quella notte, 13 persone con in tasca un coltello a scatto con lama di 13 cm, pugnalarono 13 persone che circolavano per caso in quel posto. I pugnalatori non avevano l’ordine di uccidere, ma solo di ferire gli sventurati che capitavano, ma uno morì dissanguato: un certo Gioacchino Sollima.

L’unico pugnalatore arrestato fu un giovane, Angelo D’Angeli di Palermo, lustrascarpe di 38 anni che aveva colpito al ventre l’impiegato di dogana Antonino Allitto. Messo alle strette dalla polizia, fece i nomi di tutti i pugnalatori e anche della persona con cui aveva avuto i primi contatti, un certo Gaetano Castelli, il nome del mandante lo fece al Procuratore del re e si trattava di Guido Giacosa e il processo ebbe iniziò l’8 gennaio del 1863. L’accusa fu sostenuta da Guido Giacosa, piemontese e procuratore del re.

Le persone che assoldarono il D’Angeli furono: Gaetano Castelli, Giuseppe Calì e Massimo Pasquale che avevano pagato gli assalitori 3 tarì al giorno.

Durante il processo, uno degli imputati sparì e pertanto gli imputati si ridussero a 12. L’imputazione fu di “cangiamento dell’attuale forma di governo e dello Stato”.

Il duca di Gela, Romualdo Trigona, cognato dell’arcivescovo di Palermo Giovanni Battista Naselli dei duchi di Gela, fu accusato di avere ordito la trama per la distruzione dell’attuale forma di governo, considerato tra i sostenitori più accesi dei Borboni.

Trigona smentì tutto e fu creduto sulla parola e non si indagò oltre del suo presunto apporto alla cospirazione.

La sentenza definitiva, fu emessa il 13 giugno dl 1863 con tre condanne a morte, 8 ai lavori forzati e lo stesso Anglo D’Angelo a venti anni di lavori forzati.

Nel 1863 con l’uso delle delazioni vennero eseguite centinaia di perquisizione con una sessantina di arresti.

Un delatore famoso fu Orazio Matracia, che perseguitato con l’accusa di attentato alla sicurezza dello Stato dei Savoia, viene ricercato in tutta la Sicilia.

Tra i ricercati famosi c’era un ex Garibaldino, Don Giovanni Corrao, noto come il Calafato (impermeabilizzava con catrame la parte in legno delle imbarcazioni) che dopo aver militato per i Savoia, si accorge che la dittatura imposta dai piemontesi era più dura di quella sotto il governo dei Savoia, godeva di immenso prestigio tra la popolazione palermitana.

I Savoia lo cercavano per l’importanza del suo nome e poi perché l’avevano definito mafioso. La sera del 3 agosto 1863 gli spararono cpn lupara alle porte di Palermo.

Le rivolte in Sicilia non si fermano e nel 1866 scoppia la rivolta del “Sette e mezzo” propria dei sette giorni dell’insurrezione.

Non si era placata la rivolta dei pugnalatori che un gruppo di rivoltosi palermitani, che avevano costituito un comitato segreto contro i piemontesi, il 13 settembre 1866 formarono delle barricate per assaltare il carcere dell’Ucciardone, nel tentativo di liberare i 2.000 detenuti.

Le origine della rivolta, risalgono al 1863, quando i piemontesi mandarono a Palermo il Generale Giovanni Govone per risolvere il problema dei renitenti alla leva obbligatoria.

Il grande generale, non si limitò a condannare i renitenti, ma faceva sparare e condannare anche i familiari e parenti dei parenti renitenti.

La rivoluzione fu sedata dai piemontesi nel sangue perché fecero intervenire l’esercito e la marina, rispettivamente guidati dal generale Raffaele Cadorna e dall’ammiraglio Augusto Riboty, invece di impiegarli nella guerra contro l’Austria perché incapaci e vigliacchi.

Di queste rappresaglie ne sono piene tutti gli anni che seguirono l’invasione dei piemontesi con la relativa colonizzazione, con le torture, le rappresaglie, le stragi, gli stupri e con leggi per drenare denaro al meridione e spenderlo al nord. Accenniamo alcuni degni continuatori di questi soprusi, il ministro Giulio Tremonti, che ha sottratto decina di miliardi di euro, destinati per legge alle aree sottosviluppate del meridione.

Nessuno si è fatto mancare niente. II Presidente Massimo D’Alema, in una trasmissione televisiva, sosteneva che la questione meridionale non esiste e chi ne parla è solo un disfattista anti-stato, perché la politica dello Stato italiano, sia di destra che di sinistra, si è impegnata a fare crescere il nord a qualsiasi costo.

Essendo questo l’obiettivo finale, nessuno poteva o può sottrarsi, altrimenti vengono chiuse la porte del potere politico, con grave danno personale degli uomini preposti.

Però, ancora oggi, ipocritamente cerchiamo le origini della mafia e delle organizzazioni criminali, quando i nostri politici li hanno mantenute per farli ingrassare e la giustizia, tranne qualche giudice fuori dal coro, ci convive meravigliosamente bene e vistosamente si riempiono le tasche. Però l’argomento resta, così, vivo e trattato ogni giorno dalla stampa a tiratura nazionale e dai politici ligi al volere dei massoni.

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