“Per paura ho lasciato la città”, esercente: “Bruno Di Giacomo era il padrone di Gela”

 
0

Gela. “Per paura di ritorsioni ho lasciato la città nel settembre di due anni fa. Ancora oggi ho molta paura”. Ha esordito così uno dei titolari di un bar, in via Romagnoli, che denunciò pressioni, minacce e imposizioni di forniture, tutte imputate a Bruno Di Giacomo. Quello che viene ritenuto dagli investigatori nuovo capo della stidda locale, solo pochi giorni fa è stato condannato a ventidue anni e un mese di detenzione, a conclusione del giudizio abbreviato scaturito dal blitz antimafia “Stella cadente”. L’esercente, che ha cambiato anche attività dopo il trasferimento nel nord Italia, ha risposto alle domande del pm della Dda di Caltanissetta Matteo Campagnaro, dei legali di parte civile e di quelli di difesa. Davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore (a latere Francesca Pulvirenti e Martina Scuderoni), sono imputati altri presunti complici di Di Giacomo e degli stiddari già condannati dal gup nisseno. Si tratta di Giovanni Di Giacomo, Salvatore Antonuccio, Samuele Cammalleri, Alessandro Pennata, Vincenzo Di Giacomo, Benito Peritore, Vincenzo Di Maggio, Giuseppe Truculento, Giuseppe Vella, Giuseppe Nastasi e Rocco Di Giacomo. Il testimone, nel corso di una lunghissima audizione, ha raccontato tutti gli effetti patiti dalle sue attività, a causa della presenza di Di Giacomo. “Aprimmo il bar in via Romagnoli e un giorno venne Bruno Di Giacomo – ha spiegato – mi disse che i cornetti li dovevo prendere da lui, punto e basta. Noi avevamo già i nostri fornitori e i clienti gradivano gli altri cornetti, non quelli forniti da Di Giacomo. Però, non potevo dirgli di no, incuteva timore già solo con lo sguardo. Dopo una decina di giorni, gli chiesi di non portarli più. Successivamente, trovai un pneumatico della mia auto tagliato di netto, forse con un coltello. Non so chi sia stato”. In base a quanto raccontato dal titolare del bar, quella non fu l’unica attività che risentì delle imposizioni di Di Giacomo. “Insieme a mio fratello – ha aggiunto – gestivamo una società per la fornitura di bibite e alcolici. Anche Di Giacomo iniziò ad operare in quel settore e tanti clienti ci informarono che non avrebbero più potuto rifornirsi da noi, perché dovevano acquistare da Di Giacomo, anche se aveva prezzi superiori. Era impossibile lavorare. Ormai, Bruno Di Giacomo era diventato il padrone della città. Commercialmente si era preso la città”. L’esercente ha parlato in presenza di Renzo Caponetti, presidente dell’associazione antiracket “Gaetano Giordano”, che ha seguito l’udienza e ha accompagnato alcuni commercianti vessati a denunciare, dando avvio all’attività investigativa. Nel corso dell’esame, il testimone ha richiamato il ruolo di uno degli imputati, Samuele Cammalleri. Sarebbe stato lui ad effettuare le consegne imposte da Di Giacomo. “Indipendentemente dai quantitativi dovevo consegnarli dieci euro al giorno – ha proseguito il testimone – se non sbaglio, era il cognato di Di Giacomo. Una volta, mi disse che effettuavano forniture anche di salumi e che noi dovevamo accettarle, mi opposi”. L’esercente che denunciò è parte civile, assistito dall’avvocato Valentina Lo Porto.

Parte civile, ma solo per alcuni capi di imputazione, è anche uno degli imputati, Rocco Di Giacomo. Parti civili sono la Fai e l’associazione antiracket (con l’avvocato Mario Ceraolo) e l’ambulante Saverio Scilio, con il legale Alessandra Campailla. Per le difese, il racconto del testimone non corrisponderebbe a quanto accaduto effettivamente. Diversi legali degli imputati hanno fatto notare come il bar avviato sia ancora attivo e che l’esercente continua comunque ad avere interessi nell’attività. Contestano l’entità dei danni economici indicata e soprattutto hanno insistito sul fatto che seppur considerato vittima delle imposizioni di Di Giacomo, nel recente passato ha subito una condanna, in primo e secondo grado, con l’accusa di aver truffato la compagnia assicurativa che copriva un magazzino utilizzato come deposito di bibite. Venne danneggiato dalla fiamme, che sarebbero state appiccate proprio dall’esercente e dal fratello che lo gestivano. Tutto per incassare il premio assicurativo. Il collegio ha autorizzato la produzione della sentenza emessa per la vicenda della truffa assicurativa, avanzata dai banchi di difesa. Nel corso dell’esame, è stato passato in rassegna un altro episodio, quello delle presunte minacce di Giuseppe Truculento, secondo gli investigatori intervenuto per fare in modo che i fratelli che gestivano il bar pagassero il debito contratto con Giuseppe Vella, che aveva fornito macchinari e mobilia per il locale. In base al racconto, Truculento li avrebbe minacciati anche con una pistola, nascosta in un magazzino. Ha spiegato ancora che sarebbe stato Alessandro Pennata a farsi carico di riscuotere un credito che gli esercenti avrebbero dovuto saldare con un’altra attività commerciale. Anche in questo caso, Pennata avrebbe agito imponendo il pagamento. Tutti aspetti fortemente contestati dai legali di difesa, gli avvocati Flavio Sinatra, Carmelo Tuccio, Ivan Bellanti, Giovanna Zappulla, Cristina Alfieri, Annarita Lorefice, Enrico Aliotta e Antonio Impellizzeri. Nel corso dell’udienza, è stato sentito anche l’altro fratello, che attualmente porta avanti il bar di via Romagnoli. A sua volta ha ricostruito quanto sarebbe accaduto dal momento dell’intervento di Di Giacomo nel settore locale delle forniture. Una presenza che sarebbe diventata sempre più ingombrante, favorita dal passato del presunto boss stiddaro

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here