“Emmanuello pretendeva soldi e appalti all’Eni”, Lisciandra racconta la sua verità

 
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Gela. Le minacce anche agli altri soci della Juveterranova per convincerli ad appoggiare l’elezione di Giuseppe Alabiso alla presidenza.

 

I riscontri dei pentiti e le pretese di Davide e Daniele Emmanuello nei confronti di Fabrizio Lisciandra. Ed è stato proprio l’ingegnere, vittima del tentato omicidio da cui prende spunto l’inchiesta «Leonina societas». In tribunale si celebra il processo con il rito ordinario per Giuseppe Alabiso, Gianluca Gammino, Emanuele e Filippo Sciascia. La difesa ieri ha incalzato su Lisciandra, chiamato a deporre in aula, nella veste non solo di teste e vittima, ma anche di indagato di reato connesso. Benchè assolto in «Azzurra» e «Metamorfosi», Lisciandra risulta ancora indagato per un vecchio procedimento di dieci anni fa non ancora archiviato. L’avvocato Flavio Sinatra Gli ha chiesto dei suoi rapporti con gli Argenti (ex braccio destro degli Emmanuello) e delle sue due «visite» al covo proprio di Emmanuello. E Lisciandra non si è sottratto alle domande. «Non ho mai nascosto di essere cresciuto vicino casa della famiglia Argenti, che conoscevo da piccoli. È vero, sono stato due volte nel covo di Emmanuello – ha detto – la seconda volta non sapevo dove mi portassero. A Vallelunga trovai Emmanuello che tornò a chiedermi di entrare all’Eni. E quando risposi che era impossibile per diversi motivi mi chiese 50 milioni, visto che mia moglie era notaio e la conoscevano. Dissi che non avevo quei soldi e che in ogni caso non glieli avrei mai dati. Da quel momento non sono stato più cercato». Il 14 dicembre toccherà ai pentiti. Ieri hanno deposto anche il dottor Giovanni Giudice della mobile e acquisiti i verbali di tre vittime della vicenda. Gli arrestati, a vario titolo, devono rispondere di associazione mafiosa, tentato omicidio, estorsioni, tentata estorsione, danneggiamenti e rapina. Lisciandra, ferito ad una gamba nell’agguato allo stadio Presti nel 1998, doveva essere eliminato perché si era opposto alla volontà di Cosa nostra. L’obiettivo della mafia era quello di gestire, tramite prestanomi, i relativi appalti. Lisciandra si rifiutò e per questo il boss decise di ucciderlo. A sparare furono Gianluca Gammino e Giuseppe Stimolo. 

 

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