Quindicesimo capitolo – Attentato in Vaticano

 
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Di pomeriggio, Fabrizio uscì dallo studio legale insieme ai suoi collaboratori.

Si fermò all’angolo a salutare il fido collaboratore di studio Vincenzo Romano, dottore in giurisprudenza che da una settimana era ritornato al lavoro,  e notò i due uomini sospetti della mattinata  intenti a discutere qualche centinaio di metri più avanti, vicino il baldacchino della fermata degli autobus di linea.

Si trattava delle stesse persone che al mattino erano state notate a confabulare lì vicino dallo stesso avvocato Berti.

Era impossibile che quegli uomini stessero aspettando la corriera e difficile che fossero ritornati prima di quell’ora per raggiungere, nella via del ritorno, un altro luogo.

Gli fu ragionevole dedurre che fosse pedinato e considerato importante dagli investigatori dell’intricato caso giudiziario che aveva come protagonista il medico egiziano.

Il giovane si avviò verso la sua meta, e camminando ebbe la sensazione di essere seguito; valutò le circostanze e convenne di non avere paura poiché si trattava di uomini europei, presumibilmente agenti dei servizi segreti di qualche potenza occidentale che avesse un interesse a controllare le sue mosse.

Rientrò nel suo attico e trovò Olga sorridente.

Lui aveva tanta voglia di confidarsi con qualcuno; non volle però intimorirla.

Non le raccontò nulla di quanto fosse accaduto fuori, delle sue deduzioni e paure.

Squillò il telefono.  

L’ufficiale di polizia giudiziaria  lo informò che doveva notificargli l’avviso di chiusura delle indagini preliminari contro Marwan Al Said e i suoi compagni.

Fabrizio disse al maresciallo di consegnarla in ufficio, a mani di Sara, segretaria di studio, e cercò di capire perché i magistrati requirenti, titolari dell’intricato caso giudiziario, avevano notificato l’avviso di chiusura delle indagini come se ritenessero sufficienti gli indizi di colpevolezza a sostenere l’accusa nelle fasi processuali successive.

Il giovane legale era strano, pallido.

Olga notò subito che Fabrizio fosse diverso; cercò di parlargli, di spronarlo ad essere se stesso, gioioso e goliardico.

“Mi auguro che tu possa aprirti”, commentò la ragazza con il suo italiano dall’accento sensuale, che quella sera ebbe poca efficacia sulla voglia di Fabrizio di esserle vicino e sorridente.

Lui, frastornato, colse quell’invito come se si togliesse il  sassolino dalla scarpa, confidandosi e parlandole serio, apertamente, cercando di trovare delle soluzioni, scusandosi poi se potesse apparirle freddo.

I due discussero a lungo sull’intricato caso giudiziario e sullo scontro dei due mondi, quello occidentale, ricco e colto, e quello dei fondamentalisti islamici, oscurantisti che dal loro medioevo  erano piombati sul nostro mondo.

Fabrizio confermò che Marwan Al Said  fosse un oscuro rappresentante del male, però doveva essere fermato, ad ogni costo.

Le confidò dell’incontro con Safyra e che  per lui fosse necessario fidarsi della donna palestinese.

Lei  capì  e fu solidale.

Lo avvertì anche di rivolgersi alla polizia e raccontare tutto, ammonendolo di non stare solo, di non appartarsi, a non fidarsi di nessuno.

La stessa cosa avrebbe fatto anche lei, puntualizzò con un lungo sospiro, cogliendo la gravità della situazione, dissipando i timori dell’uomo.

“Andrà tutto bene, vedrai”, rispose Fabrizio riprendendosi dalle sue indecisioni.

“Poi, ritorneremo a  farci una vacanza, e questa volta  ti porterò in un luogo da favola, a sciare sulle nevi incantevoli delle Alpi, ai confini del paradiso bianco”.

“Mi piacerebbe moltissimo, rispose Olga.

“Ultimamente sono stata così presa dagli incontri di lavoro e dalle riunioni, che abbiamo trascorso poco tempo insieme”.

Ancora una volta Fabrizio, ritornando al presente, ribadì  di quanto fosse assurdo che il ricco medico egiziano, marito di una donna molto giovane e intrigante, era un mercante di morte, pronto a compiere una strage, a perdere  anche il figlio e la sua donna.

La ragazza moscovita  gli si avvicinò dicendo che ella invece non lo avrebbe perso per nessuna cosa al mondo, abbracciandolo teneramente,  pregandolo ancora una volta di rivolgersi alla polizia, baciandolo infine appassionatamente.

“Fino a quanto non lo farai, continuerò a temere per te e per la tua vita”, insistette caparbia l’affascinante ed effervescente diplomatica, mentre coccolò il frastornato e confuso compagno.

Lei era così incantevole, ammaliante, dal fascino che mozzava il fiato; poi emanava sensualità e calore.

Fabrizio si scrollò dal torpore e, ritrovando il naturale sorriso, la rassicurò di non preoccuparsi perché era vicino a una soluzione.

Secondo Safyra, mancavano cinque giorni dalla commissione dell’azione criminale.

Lui era fiducioso di scoprire quale fosse l’obiettivo sensibile preso di mira dai terroristi e le forze di polizia avrebbero individuato il loro nascondiglio, arrestandoli.

Era quasi l’una e i due amanti, stanchi del lungo giorno e stretti tra le loro braccia, decisero di lasciare il soggiorno, recandosi in camera a dormire; lì presero sonno sotto le lenzuola e il piumone del lettone, riscaldandosi a vicenda, augurandosi la buona notte e i sogni d’oro.

Il giorno dopo, negli uffici della procura distrettuale di Roma, mentre la dottoressa Alfieri  di buon mattino era intenta sulla sua scrivania a rovistare tra i fascicoli processuali dell’udienza collegiale del venerdì successivo, le squillò il telefonino.

Quando rispose, istintivamente le prese un sussulto a sentire la calda voce di Fabrizio che riconobbe subito, all’istante; fu tentata di chiudere immediatamente la conversazione.

Lorella si domandò cosa lui volesse.

Non l’aveva sentito da più di due mesi; pensò che la cercava per chiarire.

Poi, di colpo domandò a se stessa perché non avesse interrotto la comunicazione, dandogli modo di continuare a parlare.

Aveva pensato mille volte a un loro incontro, al chiarimento anche tramite il telefono, e altrettante volte gli si era scagliata contro, inveendo energicamente contro di lui, accusandolo di essere un egoista e un uomo superficiale.

Invece ora, lei era allo stesso tempo curiosa e sgomenta di sentirlo, indipendentemente dal contenuto di cosa volesse dirle.

“Ciao, Lorella, ti debbo parlare”.

“Mi dica”, rispose sospettosa, innervosita dal timbro di quella voce che sentì familiare, anche se gli ebbe a dare del lei, dando un tono formale al dialogo, prendendogli le distanze.

“Scusami se io ti do del tu, ma non riuscirei diversamente”, replicò il giovane.

“Ti debbo incontrare subito, immediatamente; ho delle cose urgenti da dirti, e riguardano una grave notizia di reato”.

Lorella, incredula di quanto l’interlocutore fosse impertinente ad arrogarsi il diritto di darle del tu ed a continuare ad avere l’atteggiamento confidenziale nonostante quanto fosse tra loro accaduto, gli fornì due orari non imminenti per l’incontro, che le avrebbero consentito di finire il suo lavoro.

“Ho detto subito; non c’è tempo da perdere”.

La giudice conosceva l’avvocato Berti come nessuna persona al mondo; egli era discreto e gentile, ligio ai suoi doveri e rispettoso del lavoro e del tempo altrui.

Se le diceva “subito”, vi erano delle ragioni urgenti e improcrastinabili; poi, non darle del lei, le apparve ovvio, conoscendogli il modo di ragionare e di proporsi senza alcuna formalità ed ipocrisia.

Pochi minuti dopo, trillò l’interfono.

La collaboratrice della segreteria penale informò la giudice requirente che l’avvocato Berti era in anticamera e aspettava di conferire con lei, che sapeva dell’appuntamento.

“E’ così, le confermò”.

“Lo faccia entrare”, ordinò con la voce sottile che a stento le uscì dalla bocca.

Fabrizio immediatamente arrivò nella stanza, senza darle il tempo di alzare lo sguardo verso l’uscio e vederlo entrare.

Colta da un tremore non solo nella voce e nelle mani, Lorella, confusa e con il cuore in gola, alzò il viso e vide Fabrizio con lo sguardo di sempre, solare e ammaliante, penetrante e vivo, quasi come se il tempo non fosse mai trascorso e vi fosse con il giovane un’istintiva intesa.

Osservandolo più attentamente notò che era vestito elegante, con un vestito gessato, la cravatta argentata e alla moda, ma terribilmente serio e preoccupato; capì che era accaduto qualcosa,  che di lì a breve i dubbi le sarebbero stati svelati dal giovane penalista.

“Debbo depositarti la rinuncia al mandato difensivo di Marwan Al Said e dei suoi scagnozzi”, gridò quasi il difensore, lasciando scivolare sul tavolo la rinuncia dei mandati, scritta sui fogli di carta intestata.

Lorella si ritrasse di scatto, distendendosi sullo schienale e appoggiando le sue mani sulle braccia della poltrona girevole, sulla quale rimase seduta, continuando a non vedere dissolte le sue incertezze, pronta però ad  ascoltarlo.

Che Fabrizio desse del mascalzone a un suo cliente non era la prima volta, ma quella rinuncia le sembrò la beffa perché intuì che non era fatta per lei, a dirimere il conflitto d’interessi oppure a sanare  l’equivoco oramai consumato.

“Credo proprio che si tratti di cinici terroristi e dei più incalliti, che progettino un attentato nella città di Roma, addirittura contro uno dei simboli più rappresentativi del mondo occidentale”, obiettò l’uomo.

“Ho gli elementi dai quali ritenere che il progetto stragista sia entrato nella fase esecutiva; bisogna fermarli”, disse con impeto il legale, senza che la magistrato potesse fermarlo.

Il medico egiziano altri non è che il rappresentante di Al Qaida in Europa; alcuni giorni or sono si è incontrato a Roma con i fratelli islamici, discutendo dell’attentato che intendono portare a compimento entro questa settimana.

“Terroristi? 

Di cosa stai parlando”, replicò la giudice, confusa come se non fosse la magistrato inquirente titolare dell’indagine giudiziaria contro il rappresentante del Male e non avesse mai sostenuto quell’accusa.

Colta di sorpresa e intorpidita dalla paura, non riuscì nemmeno a valutare la situazione ed il fiume delle emozioni che come donna e magistrato le raggelarono il sangue ed il respiro, alla vista di Fabrizio Berti: aveva di fronte l’uomo della sua vita, l’avvocato che aveva fatto saltare l’inchiesta giudiziaria più importante della procura penale di Roma, iniziata con l’esecuzione di nove ordinanze di custodia cautelare in carcere contro gli assassini islamici ricercati in ogni angolo del pianeta e conclusasi con un flop, che era entrato nella sua stanza a denunciare l’imminenza di un attentato nella città eterna, organizzato tra l’altro dai suoi clienti!

Ripresasi dall’iniziale stupore, gli chiese di riferirle i fatti e lo ascoltò attentamente, per lunghi minuti, senza interruzioni e ritenendo verosimili le dichiarazioni accusatorie e di reità di Safyra, compulsando poi l’avvocato a fornire ulteriori spunti d’indagine circa i luoghi ove fossero reperibili il medico egiziano ed i suoi seguaci, la logistica sulla quale potevano contare i terroristi e l’oggetto dell’attentato.

Il penalista però non fu in grado di raccontare altre circostanze o fornire gli indizi che conducessero ad individuare il covo della cellula terroristica e, delusa, dopo la breve pausa accompagnata dal caffè fatto giungere dal bar esterno all’edificio del palazzo di giustizia, confessò al giovane legale che da settimane il medico egiziano, i suoi familiari ed i seguaci erano tenuti dagli uomini della procura sotto controllo, osservazione e pedinamento; inspiegabilmente, quella mattina   gli stranieri si erano dileguati nel nulla, in barba agli ufficiali di polizia giudiziaria della procura e ai servizi di intelligence italiana, americana e al Mossad israeliano, che agivano sotto il rigido coordinamento della procura della repubblica di Roma, ai suoi ordini e di quelli del procuratore capo  in persona.

“L’ultima residenza del medico – continuò a raccontare il magistrato – si trovava vicino al quartiere dei Parioli, era sotto stretta sorveglianza da giorni, ma i suoi inquilini si  erano dileguati, spariti nel nulla e senza lasciare una traccia”.

Dichiarò pure che aveva avuto da sempre il sospetto che fossero dei criminali, ma per Dio, che progettassero un attentato che a loro dire avrebbe spezzato le ali al Grande Satana, dunque di un’immane risonanza da suscitare clamore nel mondo intero, la lasciò sgomenta.

Fabrizio si rasserenò, sentendo di essersi tolto un sasso dalla scarpa, però intuì che senza il controllo dei terroristi, dileguatisi in uno dei milioni dei possibili nascondigli in Italia o a Roma, si brancolava nel buio.

Lorella lo fissò incredula, apprezzandone l’onestà intellettuale e il coraggio; era tentata di chiamare il procuratore capo e renderlo partecipe delle nuove pieghe del complesso caso giudiziario, ma allontanò la mano dalla cornetta del telefono, ritenendo di avere delle cose personali da chiarire a tu per tu con l’avvocato Berti, il quale gli apparve nello sguardo e nello spirito simile al suo antico Fabrizio, del quale, anche se non ne aveva più pronunciato il nome, non  ne dimenticava l’intensità dell’amore che in cuor suo sentiva ancora e che le pulsò dentro solo ad ascoltarne la voce.

Nella stanza, per un attimo scese il silenzio.

La donna rimase impassibile sulla sua poltrona, e l’avvocato iniziò a portarsi con un andirivieni nella stanza, davanti la scrivania, a dibattersi come mai non fosse riuscito subito a capire la trappola tesagli dal cliente egiziano con l’alibi della nave cargo “Ambassador” e con la copertura del commercio dei detersivi.

Lei fece delle riflessioni sulle diverse situazioni, essendo indecisa sui rapporti affettivi con Fabrizio, che dentro l’ufficio gli sembrò la stessa persona conosciuta ed amata di un tempo; poi incendiò dentro per essersi fatta fuggire l’occasione di arrestare il pericoloso terrorista e i suoi uomini, per i quali da settimane il pool investigativo stava lavorando sulla richiesta di nuove misure di custodia cautelare in carcere e sulle contestazioni di altri capi d’accusa.

Rimuginò anche le sensazioni personali ed i nuovi elementi l’indagine.

Lentamente, riuscì a guardarlo negli occhi, senza abbassare lo sguardo e, valutando i fatti oggettivamente, ammise a se stessa di sentirsi ancora innamorata di quell’uomo che gli apparì onesto e pulito, infine mise a nudo le sue improvvide decisioni, le quali l’avevano condotta a perderlo.

Non avrebbe voluto che fosse accaduto, ma lui era andato a vivere con un’altra donna e lei, due giorni prima dall’improvvisa visita mattutina di Fabrizio, aveva accettato la corte di Dario, il quale, quasi impazzito d’amore, le si era dichiarato perdutamente innamorato.

Non avrebbe dovuto baciarlo, rispondergli che l’affetto che sentiva, come quello di una figlia verso un padre, s’era trasformato in qualcosa di più, anche se non era amore.

Doveva dunque prendere il telefono e dirgli che lei si era sbagliata, che amava il suo uomo, ma oramai era troppo tardi.

Nel mezzo c’erano i sentimenti di altre persone, e non riuscendo a risolvere l’enigma di cosa il destino le avesse riservato nel futuro, si augurò di sprofondare in un lungo sonno dal quale risvegliarsi e ritrovarsi al fianco dell’unico uomo della sua vita.

Valutò anche la denunzia di Fabrizio.

Decise che, in quella gravità dei fatti, i suoi sentimenti non avessero alcun valore.

Lei doveva pensare da giudice e le questioni dell’ufficio della procura della repubblica erano prioritarie, la situazione esplosiva, la gente della strada in pericolo di vita: occorreva intervenire subito per salvaguardare gli interessi nazionali.

Alzandosi dalla sua scrivania e portandosi verso l’uscio, come ad accompagnare l’interlocutore alla porta, non le restò che chiudere la finestra dei suoi sentimenti, vestirsi della dignità di magistrato requirente e condurre avanti le indagini, ringraziando con lo sguardo e la voce, finalmente gentili, l’avvocato Berti per il coraggio dimostrato e per la serenità con la quale lui aveva affrontato il loro incontro.

Fabrizio istintivamente l’avvicinò, prendendola per le braccia, portando le sue mani sulle spalle della donna; poi, con la mano destra afferrò dolcemente e con decisione i lunghi capelli della donna, aggrovigliandoli sul suo braccio e poggiandoli sulla nuca della ragazza, attirandola a se, infine la baciò con un bacio al quale lei non seppe resistere, rimanendo immobile ad osservarlo anche quando lui si allontanò, sentendo la sua voce serena, che le ricordò che il mach era iniziato, di essere entrambi giocatori della stessa squadra; presto l’avrebbe chiamata sul telefonino.

“Anch’io ti chiamerò”, rispose forte al giovane che intanto percorreva il corridoio della procura, ritrovando il sorriso ed illuminandosi il viso di una luce che da mesi le era sconosciuta.

Dopo, entrata nella sua stanza e chiusa la porta, si sedette sulla poltrona della sua scrivania, e ritornò a sentirsi sola.

L’ansia l’assalì e le lacrime scesero a fiotti sulle guance, non riuscendo ad evitarle.

Doveva essere felice di avere rivisto Fabrizio, di sentirsi sciolta dall’insensato giuramento di non pronunciare mai più il suo nome, e finalmente libera dall’odio che la stava uccidendo.

Era terribile che lei ritornasse a vivere la fase del bisogno, che le lacrime le segnassero i solchi sulle guance, come i primi giorni dell’addio al suo uomo.

Capì di averlo perduto.

Pianse perché sentiva di amarlo ancora.

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