Quinto Capitolo – Attentato in Vaticano

 
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Era giorno; la donna si alzò senza preoccuparsi del compagno e di fare colazione insieme.

Ritornò nella camera e indossò l’elegante vestitino giallo paglierino dall’orlo asimmetrico acquistato al centro, in una boutique di via Condotti, accompagnato da un trench doppiopetto dalla tonalità polverosa, poi si sistemò sui capelli il foulard, cercò l’ombrello per ripararsi dalla pioggia che fuori cadeva lenta, e uscì di casa velocemente, accorciando la strada con i suoi stivaletti di Burberry, come se quella mattina vi fossero in lei delle ragioni imminenti per essere frettolosa, concedendo un labile saluto a Fabrizio, che pigro continuò a dormire come un ghiro nella sua camera, rivolto a pancia in giù nel lettone matrimoniale, e con il cuscino in testa.

La vita di coppia delle due ultime settimane non era stata vissuta dagli innamorati nell’entusiasmo dei giorni migliori.

Si fecero quasi le otto.

Puntualmente, come ogni mattino, lei prese la metropolitana e poi un bus, recandosi al palazzo di giustizia verso l’ufficio del procuratore,  dove subito dopo andò incontro al capo con il solito sorriso affascinante e leggero, di buon passo, entrando nella stanza e augurandogli il buon giorno.

Lì, la donna si liberò del suo trench, appendendolo sopra l’attaccapanni a lato della stanza, dove ai piedi sistemò l’ombrello, poi rivolse la parola a Dario, apparendogli nella sua smagliante bellezza, con il vestitino giallo floreale dall’orlo che le scopriva il ginocchio, mentre con le mani lasciò liberi dal foulard i suoi capelli ambrati, lunghi  e mossi.

Il Dottor Gaymonat sembrava un figurino, fine ed elegante come sempre;  quella giornata, aveva indossato il vestito grigio gessato delle grandi occasioni, con una giovanile cravatta dai colori forti,  a doppio nodo.

Senza perdersi in discorsi, comunicò alla collega che alle ore nove e trenta era fissata nel suo ufficio una riunione con alcuni alti ufficiali di polizia e luogotenenti, unitamente agli interpreti e agli esperti dei servizi segreti civili e militari profondi conoscitori del mondo arabo, i quali avevano lavorato nelle sale di ascolto della procura e nell’attività di intelligence dell’operazione  antiterrorismo “Ambasciata americana” che in sordina aveva preso il via quindici giorni prima, quella mattina però entrata nel vivo e nella fase operativa con i primi bagliori dell’alba. 

La procura della repubblica di Roma, sita nel nuovo centro direzionale, era a pochi minuti dal centro cittadino e da Città del Vaticano, mentre la propria sezione antiterrorismo si trovava al sesto piano del palazzo.

Si era lavorato celermente, senza alcun risparmio, quando finalmente, alla fine di un lavorio massacrante ed estenuante, la rete di cattura fu gettata sugli indagati con l’emissione di ordinanze di custodia cautelare in carcere.

Lorella Alfieri restò galvanizzata dal successo della prima, grande  operazione antiterrorismo condotta personalmente contro la cellula criminale di Al Qaida in Italia.

Aveva ancora tanta adrenalina nel corpo dopo l’esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare in carcere contro gli indagati yemeniti, egiziani, un marocchino, alcuni uomini arabi che avevano la loro dimora a due chilometri dall’ambasciata americana, all’inizio della Nomentana e vicino il liceo ginnasio Giulio Cesare, che le fu difficile sembrare calma, sia pure nell’apparenza.

Felice, lasciò la stanza del procuratore e si diresse nell’anticamera, dove al momento non c’era nessuno; lì si aggiustò rapidamente il trucco e i capelli che liberi le scendevano lunghi sulle spalle, infine si guardò con uno sguardo nuovo, diverso, pensando della propria immagine riflessa nello specchio di una consola degli anni trenta, di noce italiano, posta a lato, come di una donna decisa e sicura.

Sapeva di essere una donna bella e affascinante, ma l’imminente conferenza stampa con le principali testate giornalistiche europee e con la CNN comunicatale dal collega di certo le aveva trasmesso la tensione e forti emozioni.

Si riguardò ancora nello specchio, scrutando la sua immagine, osservandola ora di profilo.

Andare in diretta sulle principali emittenti televisive nazionali e mondiali era per lei un motivo di orgoglio e di successo.

Si recò dunque nella sala riunioni; lì trovò Dario, il procuratore capo, in piedi accanto alla scrivania, il quale dettava le ultime istruzioni ai suoi uomini e agli ufficiali di polizia che lo avevano coadiuvato nelle delicate indagini che preannunciavano imminenti sviluppi. 

La cellula terroristica islamica era stata sgominata e l’avere evitato una probabile strage, a Roma e alla nazione, era motivo di soddisfazione per l’ufficio diretto dal procuratore.

Di lui ebbe la possibilità di vederlo per la prima volta muoversi freneticamente e, guardandolo attentamente, si avvide che era ancora pieno di inesauribili energie e con la voglia di raggiungere traguardi professionali ancor più ambiti.

Ciò che vide le ispirò calorosa solidarietà in quell’uomo dalle mille risorse e dal giovanile aspetto, anche se vicino ai sessant’anni.

Di solito Dario aveva l’aria di un giudice sornione, oltre la mezza età e in ottima forma  che, come lui era orgoglio  raccontare, da giovane si era pagato gli studi universitari con grande spirito di abnegazione e sacrifici, intento ai duri lavori saltuari e notturni pur di onorare negli anni dell’università le rette di studio, oppure quelle della casa dello studente dove alloggiava; questo lui glielo aveva ripetuto  nei loro dialoghi quando si faceva riferimento agli studi liceali e all’università.

Adesso era un magistrato maturo, orgoglioso di parlare l’italiano con il tipico accento dei romani colti, e l’elegante vestito gessato, unitamente ai baffi brizzolati, ne facevano un uomo di stile e un giudice dalla notevole statura intellettuale e umana, non offuscata nemmeno dagli occhi arrossati che gli erano testimoni delle lunghe ore di lavoro e delle tensioni consumate nella notte precedente, nella quale i fermi degli indagati erano stati celermente eseguiti per il pericolo di fuga e gli arresti dei medesimi scattati per i gravi indizi di colpevolezza di associazione a delinquere finalizzata agli atti terroristici e alla tentata strage.

Dario, rivolgendosi agli addetti della cancelleria, disse che sia i giornalisti che i tecnici delle televisioni invitati potevano accomodarsi in sala, poiché di lì a poco lui personalmente avrebbe aperto la conferenza stampa, preannunciando che, dopo la sua breve esposizione, sarebbe stata data la parola alla dottoressa Alfieri, incaricata di comunicare  e sintetizzare ai giornalisti e ai media presenti i risultati dell’indagine investigativa.

Lorella fu colta all’improvviso dalla decisione del procuratore, ma ripresasi immediatamente dall’iniziale stupore, come se si fosse aspettata quell’invito, si preparò a relazionare il folto campanello di cronisti, giornalisti e cameramen che stavano attorno al tavolo ovoidale dell’ampia sala conferenze.

Dario dopo aver presentato se stesso, la collega e il pool investigativo che aveva condotto nelle settimane precedenti le delicate indagini che avevano portato a conseguire risultati straordinari, passò la parola alla sostituto procuratore, contitolare del procedimento penale, facendo un leggero passo indietro.

Il viso di Lorella si fece molto più serio quando si avvide che gli occhi dei presenti, i microfoni e le telecamere le erano puntati addosso e mentalmente si preparò ai primi piani delle telecamere delle televisioni di stato, a larga diffusione nazionale, e delle principali emittenti televisive private mondiali, affrontando la platea come se si trovasse nella fossa dei leoni, però con il collega più anziano al suo fianco, vicino e a sinistra.

La donna prese la parola, inquadrò la videocamera principale, come se vi guardasse dentro, ed espose i fatti.

“Signori, l’indagine investigativa di oggi rende più sicuro il territorio nazionale e gli ospiti dell’ambasciata americana di via Veneto; dunque ciascuno di noi.

Una cellula criminale di Al Qaida che opera in Germania, con ramificazioni in Belgio, Spagna e Italia, è stata sgominata prima ancora che riuscisse a mettere in atto le fasi strumentali e commettere una strage anche qui a Roma, all’ambasciata dei nostri principati alleati.

La tecnica dei kamikaze è oramai collaudata in Palestina, Iraq, Cecenia, Egitto, in alcuni Paesi maghrebini e ora in Europa.

E’ la stessa tecnica che gli indagati arrestati volevano utilizzare nella nostra città, servendosi di diversi camion imbottiti di tritolo da lanciare contro i  cancelli e nei giardini dell’ambasciata.

Indubbiamente per la nostra procura e le forze di polizia è un successo indiscutibile, che evita delle tragedie e ripercussioni nei rapporti internazionali con il mondo arabo e tra le forze politiche nazionali.

Chi può affermare quanti lutti e quali orrori avrebbero causato gli estremisti catturati.

Vi è da dire anche quali fortissime motivazioni abbiano spinto gli indagati a ideare di togliersi la vita pur di colpire gli interessi americani”.

Un silenzio quasi religioso cadde sulla conferenza stampa.

Lei continuò:

“Ci sono domande che non possono essere ignorate, e occorre dare una risposta se vogliano prevenire i nuovi attacchi.

Gli indagati sono stati ristretti nella casa circondariale di massima sicurezza di Rebibbia, e mi risulta che a giorni saranno sottoposti al regime del carcere duro con decreto del signor ministro della giustizia, come annunciato dallo stesso titolare del dicastero che si è congratulato personalmente con l’ufficio.

Particolare merito all’eccellente operazione di polizia deve essere attribuito al procuratore capo della procura della repubblica presso il tribunale di Roma, dottor Dario Gaymonat, le cui intuizioni investigative sono state l’input delle indagini.

Una fonte confidenziale ci aveva informato dell’imminenza di un attentato dinamitardo a Roma.

Sarebbe stato il primo caso di una strage organizzata  e consumata sul territorio italiano dai terroristi arabi.

Tragedie come queste possono essere evitate solo grazie allo spirito d’abnegazione e al sacrificio di uomini di elevate capacità investigative, ma ciò non basta”, quasi gridò Lorella alzando decisa il tono della voce.

“Occorrono nuovi strumenti legislativi e sinergie tra le procure della repubblica  territoriali e i servizi di sicurezza nazionale, diretti da magistrati specializzati nella repressione di un fenomeno che rischia di essere planetario.

Forse, i nove terroristi arrestati avevano delle ragioni e degli ideali.

Non è nostro il compito di azzardare una qualsiasi ipotesi sul fondamento ideologico della loro ferocia ed efferatezza.

Noi possiamo però dare una risposta repressiva altamente qualificata e professionale.

Le indagini sono ancora in corso, coperte dalla massima riservatezza e dal segreto istruttorio.

E’ stato disposto il differimento dei colloqui degli uomini arrestati con gli eventuali familiari e con i difensori e a breve verrà loro notificato il 41 bis.

Speriamo di arrivare entro poche ore a sequestrare il carico dell’esplosivo partito dall’hinterland di Napoli e diretto a Roma per rifornire i terroristi, che dalla strada della Nomentana e alle porte di Roma sarebbero partiti lanciandosi sull’ambasciata americana.

Io colgo l’occasione per tranquillizzare l’opinione pubblica italiana e al contempo invito le classi politiche della sinistra e della destra parlamentare  affinché al più presto dotino le nostre procure della repubblica di strumenti repressivi validi ed efficienti.

Grazie, signori, per il vostro ascolto, consapevole che anche voi avete colto quali e quante siano state le energie profuse dalla procura di Roma, e il significato di una simile operazione per l’intera nazione”, caldeggiò con voce amica e rassicurante.

Partì subito un forte applauso tra le persone presenti, quasi un’ovazione,  e sembrò che nella sala riunione fosse scoppiato il finimondo, sentendosi anche in corridoio lo scoppio del tappo di una bottiglia di spumante aperto con entusiasmo da un anonimo assistente giudiziario.

I colleghi della procura e dei collegi giudicanti, gli ufficiali di polizia, dell’arma dei carabinieri e della guardia di finanza, si strinsero attorno al procuratore e alla sostituto procuratore, pressoché ipnotizzati e galvanizzati dalle parole ferme e decise della dottoressa Alfieri, la quale era stata come un fiume in piena nel perorare il successo investigativo ottenuto, e la richiesta di dotare le procure di poteri inquisitori più efficienti apparve alla stampa come un messaggio subliminale da mandare subito in onda nei telegiornali e sui maggiori quotidiani.

Dario, che le era rimasto a lato, con il sorriso ed un cenno del capo,  annuì che era entusiasta della breve ma dirompente conferenza stampa.

Lorella era raggiante, orgogliosa del messaggio mediatico andato in onda in diretta su tutto il territorio nazionale e, pregustando l’imminente successo investigativo, si rivolse sorridente al capo, chiedendogli come lei fosse andata.

Il procuratore la rassicurò: “la conferenza stampa è stata straordinaria, precisa e puntuale; presto ci saranno ulteriori sviluppi sul piano delle indagini e indirettamente su quello del mondo politico, il quale grazie al tuo intervento, non può non cogliere il nostro chiaro invito di candidare la procura capitolina  alla leadership nel lavoro di repressione dei reati di terrorismo islamico contro la sicurezza dello stato”.

Passarono meno di due ore; nell’ufficio della procura giunsero i signori ministri dell’interno e della giustizia, i quali personalmente portarono ai procuratori titolari dell’operazione di polizia le più vive e le felici congratulazioni del presidente della repubblica, del premier e della sua first lady che raggiante aveva pregato il signor ministro di giustizia di congratularsi personalmente anche con la dottoressa Alfieri, e di ricordarle dell’invito a cena per il giovedì prossimo, discusso telefonicamente con la giudice la settimana prima.

Passarono ancora lunghi, interminabili minuti che si annodarono in ore.

L’atmosfera in procura era sempre dinamica, nonostante fosse il primo pomeriggio; nel frattempo, entrò  nell’ufficio del procuratore capo  l’ispettore Parisi, il quale si avvicinò al dottor Gaymonat, invitandolo in disparte e sottovoce per riferirgli delle notizie sugli ultimi sviluppi.

La fonte confidenziale giordana dalla quale erano scaturite le indagini si era resa irreperibile, insieme ai propri familiari che da solo un giorno erano riusciti ad avere il permesso di soggiorno sul territorio comunitario; probabilmente, secondo le altre fonti confidenziali, infiltrate nel mondo arabo  e suburbano di Roma, il perfido Sherif Ben Tahar aveva lasciato la città eterna  e già oltrepassato, attraverso il valico del Brennero, la catena montuosa delle alpi, e raggiunto dei parenti in uno dei tanti paesini sparsi nella regione dell’alta Baviera, in Germania, a godersi il premio in denaro avuto dai servizi segreti italiani  per la confidenza resa alla magistratura.

Dario, con l’innegabile istinto di sempre, impallidì, esclamando istintivamente “porca miseria” e aspettandosi ulteriori sviluppi, anche se per nulla buoni.

“Accidenti ispettore; la settimana scorsa ho parlato personalmente, sia pure per pochi minuti, con la fonte giordana e ho avuto il sospetto che questi fingesse di collaborare con la giustizia e con i servizi allo scopo di ottenere solo dei benefici personali.

La pista investigativa che ha fornito il collaborante è certamente eccellente, però la sua fuga potrebbe nascondere fini subdoli…

Le conclusioni che possono essere tratte conducono a diverse piste, una delle quali è quella che lo stesso dichiarante abbia avuto paura per la sua incolumità fisica, nonostante le rassicurazioni avute a tal riguardo,  e sia fuggito.

Ma non voglio pensare e valutare un’altra inquietante ipotesi”, chiosò, “quella che ci abbia preso per il naso, infinocchiandoci, dirottandoci su una falsa pista…”, sbottò perplesso.

“Mi limito solo a delle ricostruzioni logiche, anche se certamente ci saranno ulteriori evoluzioni dal punto di vista legale e giudiziario.

Se dovessi azzardare la mia opinione personale”, aggiunse, “scommetterei che Sherif Ben Tahar non sia stato un confidente interessato a ottenere dei benefici, ma un mercante, un cinico imbroglione che si è burlato  di noi  e dei servizi di sicurezza, mettendoci nel sacco. 

Molto probabilmente sarà stata anche colpa nostra a non vigilare su di lui mediante il servizio  zero ventiquattro, di osservazione, pedinamento e controllo; dannazione!

Bene, da adesso torniamo al lavoro, e niente fughe di notizie o commenti con la stampa” tuonò frustrato ma pronto a riprendersi.

“Mi dispiace  dottore, i miei uomini sono arrivati in ritardo”, replicò dispiaciuto il sottufficiale.

“Anche noi siamo stati  impegnati nell’operazione con tutta l’anima e, le confesso, siamo stremati; il controllo sul nostro uomo si è allentato…”

“Ma lasci stare, per carità di Dio”, replicò il giudice.

Agitatissimo e frenetico, il procuratore dirigente si passò la mano prima sui lucidi capelli neri, poi sul mento e poi ancora sui baffi, non riuscendo a credere a quello che era successo al loro ipotetico super testimone oramai resosi irreperibile, senza che nemmeno fosse stato assunto formalmente a sommarie informazioni testimoniali e soprattutto con la rabbia che, nel procedimento penale a carico degli indagati,  se assente, l’informatore giordano non sarebbe stato il  testimone principale e fonte di prova nel dibattimento, come richiesto dalle regole del giusto processo.

Avrebbe potuto disporne l’accompagnamento coattivo negli uffici della procura ma Dario non aveva mosso un dito, fidandosi di colui che sembrava un valido collaboratore di giustizia per motivi religiosi e politici.

Il dottore  Gaymonat aveva la fama di essere un valido giudice, ma quando si arrabbiava non era in grado di riprendere il controllo di sé, come quella volta che, rinchiusosi nella sua stanza, si lasciò andare alle invettive più volgari, di ogni genere ed epiteto, contro il confidente.

Da giovane era stato uno studente modello ma burbero,  e la strada e le piazzette erano state le sue maestre, ma da adulto era diventato un uomo allineato e inquadrato, svezzandosi dall’educazione familiare poco fine, ma quando perdeva il controllo emotivo di sé, emergeva l’antico e burrascoso carattere rissoso che solo la maturità degli anni migliori gli aveva insegnato a dominare.

“Pare proprio che l’indagine non sia stata impeccabile e professionale”,  borbottò il giudice più anziano facendo autocritica e chiamando la collega, dicendole di rimanere nel suo ufficio al fine di riferirle delle novità.

Il procuratore le era molto grato di come avesse affrontato la conferenza stampa; c’era voluto un gran coraggio a perorare per le istituzioni giudiziarie, in diretta e dinanzi i principali network nazionali ed esteri,  nuovi e più moderni poteri investigativi, da affidare a una Procura Distrettuale Nazionale, quali la giurisdizione territoriale sull’intera nazione per la repressione dei reati di matrice islamica e terroristica, a capo di un corpo di polizia di èlite e costituito ad hoc,  che coordinasse i servizi di sicurezza civili e militari; come dirle però che il loro supertestimone fosse  svanito nel nulla!

Ora i magistrati avrebbero dovuto procedere agli interrogatori di garanzia degli indagati  di terrorismo per cercare i riscontri alla tesi accusatoria, richiedere una collaborazione con i servizi di intelligence filo americani degli stati di origine degli arrestati e cercare nuovi elementi di colpevolezza a loro carico, al fine di dare la concretezza, la precisione e la concordanza alla pista investigativa, ma per Dio, mancava il principale teste, oramai dileguatosi nel nord Europa.

E come gli inquirenti intuivano, gli indagati avrebbero dichiarato la loro innocenza e forse presentato al giudice dell’interrogatorio prove a discolpa, con la possibilità di subire l’affievolimento del quadro indiziario.

“Accidenti”, esclamarono all’unisono i due giudici della procura romana.   

“Occorre fare presto”, aggiunse  lei.

Lorella voleva, dunque, chiudere al più presto il cerchio e le indagini sull’individuazione, il sequestro dei camion che sarebbero stati utilizzati dai terroristi  nella fase esecutiva della strage.

Intanto, mentre Dario, con lo sguardo contrito e infuocato, le confessò le ultime comunicazioni dell’ispettore di polizia e le sue personali preoccupazioni, un colonnello dei carabinieri entrò nell’ufficio del procuratore, riferendogli che le ricerche di individuazione degli autocarri brancolavano ancora nel buio, nonostante i numerosi posti di blocco delle forze dell’ordine, disposti in tutte le strade e arterie principali che dalla periferia di Napoli giungevano a Roma, in particolare dall’autostrada A1  e fino a tutte le entrate del  raccordo anulare.

Lorella ebbe un momento di sussulto, puntualizzando al dirigente che il compito di assicurare alla giustizia i corpi di reati  fossero stati affidati alle forze di polizia esterne, in ausilio agli uomini della procura, e costruì e ricostruì le fasi delle indagini, cercando di scaricare la colpa sulle negligenze della questura napoletana delegata alla ricerca dei riscontri, in particolare al controllo di ogni autocarro che, uscendo dall’interporto campano di Nola, si era immesso sull’autostrada verso la città di Roma.

Lui non si dava pace, andando su e giù per la stanza; si rivolse a Lorella, la guardò diritto negli occhi azzurri acquamarina, accarezzata nelle guance da una cipria rosa, e anche se non dimostrò alcun rimprovero a se stesso e alla collega, la invitò di essere lasciato solo.

Il colonnello dei Carabinieri e la sostituto procuratore, tesi e con il broncio nei musi, lasciarono l’ufficio del procuratore capo, dirigendosi in quello  della dottoressa Alfieri, dove si intrattennero corrucciati in un lungo dialogo, programmando l’ulteriore percorso investigativo, senza darsi per sconfitti.

Poco dopo,  intanto, la cancelleria del giudice delle indagini preliminari comunicò via fax alle parti processuali che gli interrogatori degli arrestati erano stati fissati per il lunedì seguente, e  Lorella rimase stupita quando la sua segretaria entrò correndo e sconvolta nel suo ufficio, riferendole ad alta voce che i terroristi  catturati non avevano nominato alcun legale di fiducia e l’avvocato Fabrizio Berti era stato designato loro difensore d’ufficio.

Era una giornata fredda e grigia, un venerdì enigmatico che annunciava un fine settimana di lavoro e di sorprese.

La giudice, senza riflettere ed istintivamente, chiamò subito al telefono Fabrizio, dicendogli che ella era con lui adirata,  che voleva parlargli al telefono immediatamente circa le difese dei suoi nuovi clienti e che, in ogni caso, sarebbe rimasta in procura; di sera lei sarebbe rientrata  casa tardi.

Il giovane le rispose di essere colto di sorpresa da quella strana telefonata, di non sapere nulla delle difese di ufficio, di non avere ricevuto alcuna notifica degli avvisi di interrogatorio  e di apprendere il fatto sola dalla sua voce.

In ogni caso, non percependo la gravità dell’ira della compagna, le si congratulò per l’ottimo lavoro svolto, così come gli era stato riferito da alcuni suoi colleghi; lui era stato fuori Roma, impegnato al tribunale di Tivoli in una difficile difesa che lo aveva gravato fino a quell’ora.

La donna invece, come un fiume in piena e senza chiarire quanto da lei contestatogli velocemente, gridò: “vai a quel paese”, riattaccando il telefono.   

Poco prima della mezzanotte, Lorella rientrò a casa, nell’attico di piazza di Spagna, nervosa e stanca per la giornata stressante, e si diresse imperterrita e corrucciata nel soggiorno.

Lì, nulla valsero le rinnovate moine e felici congratulazioni di Fabrizio per la conferenza stampa mattutina della sua donna, alla quale in serata  e in replica egli  aveva assistito in televisione,  stupefatto e pieno di ammirazione.

La donna continuava a indossare il vestitino giallo che durante la giornata aveva irradiato luminosità e che lei non aveva desiderato cambiare di pomeriggio o di sera con altro vestito;  ora  si muoveva scalza delle sue scarpette dal tacco alto, sfilate in fretta e lasciate all’ingresso dell’appartamento, girovagando a passo veloce e di scatto tra il soggiorno e la cucina, sproloquiando sempre di più e a gran voce, aprendo infine di stizza il frigorifero alla ricerca del bacardi freezer, un alcolico pine apple che consumò velocemente, a superare l’amaro in bocca.

Sentiva ancora il cuore batterle, colmo di rabbia e angoscia, a pensare che l’indagine da lei presentata alle televisioni e alle principali testate giornalistiche mondiali potesse rivelarsi una debacle.

Lo sgomento non l’abbandonava.

Senza pensarci, sbattè lo sportello del frigobar e si rivolse a Fabrizio, dicendo di essergli arrabbiata per le sue difese d’ufficio, che c’era il fumus di un conflitto di interessi tra di loro, e che se lei non si fosse astenuta dal procedimento penale, sicuramente qualche giornalista di cronaca giudiziaria le avrebbe sollevato l’incompatibilità e dunque tolta l’indagine; rabbiosa, gli ricordò anche che, tempo addietro, lui le aveva riferito di avere chiesto al consiglio dell’ordine di appartenenza la sua cancellazione dalle liste dei difensori d’ufficio del circondario del tribunale di Roma: con immediatezza e a denti stretti sentenziò che le dispiaceva proprio che il suo compagno fosse stato un bugiardo ed ora il difensore di carnefici islamici senza alcuna considerazione per delle vite umane.

Lo pregò pertanto, con ordine perentorio, a gran voce e senza più guardarlo negli occhi, di presentare al giudice delle indagini preliminari  titolare del caso  l’istanza di rinuncia alle difese, al fine di essere sostituito da un altro difensore d’ufficio.

“Immediatamente”, gli gridò.

Fabrizio, sprofondando nella sua poltrona, ebbe un momento di sussulto e si sentì sgomento, dichiarandole di non essere stato ancora informato dalla polizia giudiziaria delle nomine degli indagati; poi, rabbrividendo a sentire quelle frasi che gli suonavano non solo di comando ingiustificato ma anche di inesperienza professionale della donna, nonché di mancanza di fiducia nei suoi confronti, le rispose dicendo di essere confuso da quanto lei gli sproloquiasse contro, scusandosi comunque di avere dimenticato di formalizzare la rinuncia all’iscrizione nelle liste dei difensori d’ufficio, rimasta da alcuni mesi lettera morta sulla sua scrivania.

Lei, in ogni caso, gli brontolava inutilmente.

Osservò che, eventualmente, ciascuno avrebbe svolto il proprio incarico con la professionalità e l’onestà consueta.

Di contro, però, non gli andava a genio che la preghiera della donna fosse un perentorio ordine, senza discuterne.

“Vai a quel paese”, gli urlò Lorella fuori di sé; gli lanciò una porcellana che non  riuscì a colpirlo per i riflessi pronti del giovane compagno e  gli gridò nuovamente di andarsene, linciandolo con invettive e delle occhiate feline,  poi di scatto andandogli contro.

Era così furiosa che il compagno, nonostante i vari e decisi tentativi di calmarla, non riuscì a parlarle con la dolcezza di sempre; gli intimò di non toccarla  e di  non rivolgergli  più la parola; e non aveva la minima intenzione di ritornare nei suoi passi, essere serena e accomodante.

La serata finì dunque con i due giovani che, per la prima volta, si trovarono in posizioni opposte, intransigenti e inconciliabili, portandosi in due camere diverse: Lorella nello studio privato dell’attico, portandosi con sé il piumone della loro camera da letto, sistemandolo sul divano laterale,  Fabrizio in soggiorno a stirarsi sull’altro divano, a vedere la televisione che, guarda caso, sulla rete uno trasmise uno speciale sull’operazione “Ambasciata americana” e sulla conferenza stampa mattutina della compagna, alla quale di lì a poco seguirono i commenti dei diretti responsabili degli uffici giustizia dei maggiori partiti politici della sinistra e della destra italiana, accompagnati dai soliti esperti di politica estera, divisi sulle questioni di diritto internazionale  e di terrorismo islamico in falchi e colombe.

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