La superiore saggezza della religione di Stato

     
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    Gela. Negli ultimi giorni abbiamo assistito all’ennesimo riapparire di una costante della vita civile e politica italiana che, per quanto si presenti ormai come una specie di dato naturale, non dovrebbe smettere di sorprenderci e di interrogarci.
    In occasione sia dei funerali di Stato di una parte delle vittime del crollo del viadotto Morandi di Genova, sia della ricorrenza del secondo anniversario del terremoto che il 24 agosto del 2016 devastò diversi piccoli comuni tra Lazio, Umbria e Marche, abbiamo visto come tra le istituzioni e certe pratiche religiose ci sia quasi un rapporto di consustanzialità, ovvero un’assenza di soluzione di continuità che, più che a uno Stato laico, fa pensare a uno Stato confessionale. Rubando il mestiere ai preti, qualche politico non si è limitato a partecipare a veglie di preghiera ma è persino arrivato a invitare alla preghiera stessa, come se fosse un telepredicatore qualsiasi. La partecipazione attiva dell’imam di Genova ai funerali di Stato, poi, è stata presentata come un segnale di grande apertura intellettuale, con l’implicito che al di fuori delle confessioni religiose non ci sia nulla persino per le istituzioni sedicenti laiche. La stessa televisione di Stato non trova nulla di strano nel dare notizia contemporaneamente della lentezza dei lavori di ricostruzione e delle veglie di preghiera gremite di politici locali e nazionali.
    Ora, non si vuole qui fare dell’anticlericalismo di maniera. Anzi, forse è arrivato il tempo di cedere le armi e di riconoscere in questo comportamento degli uomini delle istituzioni non un cinico opportunismo ma una superiore saggezza, dettata da una sicura conoscenza della natura umana. Sanno che la maggioranza dei cittadini che rappresentano ha ancora molta strada da fare per uscire dalla superstizione e da certi costumi legati alla pietà popolare tradizionale, e così vi si adeguano, piegando all’uopo anche i loro ruoli istituzionali. Perché opporsi alla natura, dunque?
    Possiamo supporre, allora, che la nostra classe politica sia aggiornata sulle più recenti conquiste nel campo degli studi sull’evoluzione della cognizione umana e ne faccia uso per sintonizzarsi con il sentire comune. Come una sorta di pensoso inquisitore dostoevskiano, il nostro politico-tipo asseconda le debolezze umane dei “cittadini”, perché considera illusorio cercare di porvi rimedio. Ma quali sono queste cognizioni nuove di cui egli è al corrente?

    “Homo credens”
    Com’è noto, c’è ormai un largo accordo nell’ambito delle scienze cognitive e della psicologia evoluzionistica sul fatto che noi saremmo dei “natural born dualists”, nel senso che nasciamo dotati di una sorta di senso comune psicologico che, prima ancora di essere esposti a contenuti culturali specifici, ci fa interagire con il mondo e soprattutto con gli altri sulla base di quello che alcuni filosofi chiamano “atteggiamento intenzionale”. Più precisamente, nella specie umana sembra innata la capacità di leggere la mente degli altri facendo ricorso a un vocabolario che contiene termini come “intenzione”, “credenza”, “volontà”, ecc. Come uno psicologo nato, un bambino che segua un normale percorso di sviluppo è in grado per esempio di riconoscere, in uno sconosciuto, una cattiva intenzione. Non solo. Spesso i bambini tendono a generalizzare questa abilità estendendola non solo agli animali ma anche ad esseri inanimati. Gli esperimenti su questa sorprendente tendenza dei bambini a popolare l’ambiente circostante di agenti intenzionali invisibili, pongono il problema della spiegazione evolutiva di una tale disposizione innata. Un’ipotesi ampiamente condivisa è che l’iperattività del dispositivo cerebrale del riconoscimento di agenti intenzionali, che condividiamo con altre specie, abbia un notevole vantaggio evolutivo, perché le probabilità di sopravvivere, e quindi di riprodursi, aumentano se si dispone di un meccanismo che, di fronte a un pericolo potenziale, sceglie sistematicamente la fuga.

    Il filosofo scettico americano Michael Shermer, nel suo “Homo credens. Perché il cervello ci fa coltivare e diffondere idee improbabili” (2011, tr. it. UAAR-Nessun Dogma 2015), ha proposto una formalizzazione molto semplice di questa sorta di principio razionale che l’evoluzione ha trovato e implementato nei sistemi nervosi esplorando lo spazio dei progetti. Secondo Shermer, la nostra tendenza irresistibile (che lui chiama “patternicity”, schemismo) a individuare schemi percettivi ed esplicativi nel rumore di fondo dell’ambiente, abbinata con la tendenza (che lui chiama “agenticity”, intenzionismo) ad attribuire significati e intenzioni a tali schemi, è alla base della generazione continua di credenze da parte del nostro cervello, la cui giustificazione è sempre successiva (la sua tesi di fondo, continuamente ribadita, è: «prima viene la credenza, poi le spiegazioni»). Questo fatto ha alcune conseguenze interessanti. Innanzi tutto, «una volta costruite le credenze, il cervello cerca (e trova) prove a loro sostegno, il che lo incoraggia e rende le convinzioni ancora più radicate, un loop di feedback positivo che accelera il processo di rinforzo» (p. 6); inoltre, questo meccanismo di rinforzo, alla base del ben noto bias di conferma, si specifica nel bias autogiustificativo, cioè la razionalizzazione e giustificazione a posteriori delle decisioni prese, le cui vittime principali, nota maliziosamente Shermer sulla base di studi specifici relativi alle previsioni politiche ed economiche, sono proprio le persone più intelligenti, ovvero i cosiddetti esperti: «come l’euristica autogiustificativa lasciava presupporre, gli esperti sono notevolmente meno inclini dei profani ad ammettere di essersi sbagliati. A me piace dire che le persone intelligenti credono alle cose strane perché sono più brave a difendere le credenze a cui sono arrivate per ragioni non intelligenti» (p. 313).
    Il motivo per cui il nostro cervello è così iperattivo nella generazione di schemi e di credenze in agenti intenzionali va ricondotto allo stesso algoritmo darwiniano, che premia in termini evolutivi il pool genico che produce un numero sempre maggiore di copie di se stesso. Di fronte a una configurazione percettiva dominata dal rumore di fondo, osserva Shermer, una possibile preda può incorrere in due tipi di errori molto diversi tra loro in termini di costi. L’errore del primo tipo (T1) è il falso positivo, che consiste nel presumere la presenza di qualcosa che non c’è, per esempio scambiando per un predatore un fruscìo prodotto dal vento. Indubbiamente T1 ha un costo (C), per esempio in termini di energia spesa per la generazione e il riconoscimento di uno schema (predatore), per l’attivazione dello schema motorio della fuga e così via. L’errore del secondo tipo, T2, è il falso negativo, che consiste nel presumere l’assenza di qualcosa che invece c’è, per esempio non collegando per associazione un fruscìo nell’erba alla presenza di un predatore in agguato. Anche se apparentemente T2 comporta un notevole risparmio di energia sul piano cognitivo e motorio, è evidente che il suo costo è talvolta la vita stessa. Di conseguenza, sostiene Shermer, poiché è molto più difficile e costoso, in termini di ricerca e sviluppo, tentare la strada della messa a punto di un dispositivo cerebrale in grado di distinguere con la massima rapidità gli schemi falsi da quelli reali e pesare di volta in volta i costi di T1 e T2, l’evoluzione ha optato per la soluzione più economica: «l’orientamento di default è presumere che tutti gli schemi siano reali: in altre parole, che tutti i fruscii nell’erba siano pericolosi predatori» (p. 68). Noi, dunque, con la nostra architettura neurale cablata in modo tale da farci reagire rapidamente a pattern significativi (come i volti e i movimenti) sin dalla nascita, attribuendo ad essi intenzioni e scopi in perfetto stile cartesiano, siamo i discendenti dei migliori generatori di falsi positivi, cioè di credenze in agenti invisibili, indipendentemente dal fatto che questi siano realmente esistenti. Tutto ciò è da Shermer sintetizzato con una formula che descrive l’emergere dello schemismo (S) come il risultato di situazioni ecologico-evolutive nelle quali il costo di T1 è sistematicamente inferiore a quello di T2:

    S = C (T1) < C (T2)

    Questo quadro esplicativo spiega perché la stragrande maggioranza delle persone dichiari di credere in una qualche divinità. Shermer (p. 197) riporta il dato aggiornato al 2009 della World Christian Encyclopedia (pubblicata dalla Oxford University Press), secondo la quale l’84% della popolazione mondiale, cioè circa 5,7 miliardi di esseri umani, è costituita da affiliati a una qualche religione organizzata. Questo dato coincide con quello più aggiornato e dettagliato fornito dal Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, che a pagina 9 di “The Global Religious Landscape: A Report on the Size and Distribution of the World’s Major Religious Groups as of 2010”, pubblicato nel dicembre 2012, fornisce il quadro illustrato nel grafico a torta qui riportato. La disposizione a credere, dunque, sembra del tutto naturale, perché il generatore di credenze si è installato nel nostro cervello per valide ragioni evolutive e le credenze stesse «si manifestano sotto forma di pattern regolari in ogni fase storica e culturale» (p. 198).

    La politica sognata dai razionalisti laici
    Quanto detto fin qui fornisce una sorta di “giustificazione” al comportamento di molti politici. Perché sforzarsi di mettersi in sintonia con il pensiero scientifico più avanzato, per definizione impopolare, se si può assecondare più comodamente la natura umana nella sua attuale fase evolutiva?
    Se volessimo delineare le caratteristiche di una prassi politica più fedele ai più elementari principi della razionalità critica, potremmo richiamarci a una tradizione di pensiero che oggi, soprattutto in un paese come il nostro, sembra del tutto estranea allo spirito dei tempi, caratterizzato dalla propaganda più cinica e sfrenata, dallo sfruttamento delle paure e delle superstizioni del cosiddetto “popolo” e dal trionfo di quella che Umberto Eco chiamava “la forza del falso”.
    Il medico e consigliere comunale inglese Roger James pubblicò nel 1980 un libro intitolato “Ritorno alla ragione. Il pensiero di Popper e l’amministrazione pubblica” (tr. it. Rusconi 1998). Si tratta di una sintesi completa di tutti quegli aspetti del pensiero popperiano che potrebbero guidare la pratica amministrativa e politica: il ruolo dell’atteggiamento critico e razionale (cap. I), i tre mondi (cap. II), il sospetto nei confronti di certe forme di irrazionalismo, come l’olismo, lo storicismo e la sociologia della conoscenza (cap. III), la teoria della democrazia e della società aperta (cap. IV), i limiti dello psicologismo soggettivistico (cap. V), lo smascheramento del mito del riflesso condizionato (cap. VI), la denuncia dei pericoli della pianificazione totalitaria in politica e in economia (cap. VII), l’applicazione di criteri razionali ed estetici all’urbanistica (cap. VIII), gli abbagli dello scientismo (cap. IX), l’influenza delle teorie errate implicite nelle decisioni politico-amministrative (cap. X), la pratica concreta della democrazia (cap. XI) e la forza delle idee sbagliate (cap. XII). L’idea di fondo di James è che l’atteggiamento razionalista-critico proposto da Popper, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento dell’errore, cioè della smentita di una aspettativa, come unica fonte di conoscenza empirica e quindi come motore essenziale per la crescita della conoscenza in generale, può rivelarsi uno strumento utile nella “public life”, perché favorirebbe un mondo sociale improntato all’onestà intellettuale, alla consapevolezza della nostra fallibilità e all’incoraggiamento della critica per sfruttare il valore euristico dell’errore. I politici al governo, in particolare, dovrebbero compiere una rivoluzione cognitiva copernicana: anziché cercare e persino inventare conferme del successo delle proprie iniziative per scopi propagandistici, dovrebbero esercitare un’autocritica spietata e stimolare la critica dell’opposizione, al fine di imparare dagli errori per il bene di tutti.
    Insomma, un libro dei sogni che rimarrà nell’oblio chissà per quanto tempo ancora.

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