Secondo Capitolo – Attentato in Vaticano

 
0

La donna si svegliò alle prime luci dell’alba che lambirono le persiane di rovere del piano attico; alle sei e trenta del mattino, si alzò dal letto e, dopo avere baciato sulle spalle e sul viso il pigro, assonnato compagno, nuda si portò dentro la camera da bagno, facendosi una lunga e scrosciante doccia con l’acqua tiepida e poi fredda, e ancora calda, liberandosi dalla sensazione di un’eccessiva freschezza dell’acqua che le  cancellò il lieve torpore del risveglio.

Si vestì mettendosi lo slip e un bianco reggiseno di seta, indossò la camicetta di lino lilla, poi un elegante jeans sbiadito alla moda e infine calzò dei sandali dal tacco alto, il cui colore si richiamava alla camicia, portandosi in cucina, dove alcuni minuti dopo fece colazione con una bollente tazza di caffè e dei cornetti di crema al limone.
Alle sette e quaranta si riportò nella stanza da letto, a baciare Fabrizio che stava ancora impigrito nel letto, a salutarlo chiamandolo “orsacchiotto” e dicendogli “ciao amore”; si sarebbero visti in tribunale oppure sentiti più tardi.
Uscì di casa, indossando una fine ed elegante giacca scamosciata, accompagnata dal collo di volpino argentato per ripararsi dall’inusuale freddo della stagione autunnale che preannunciava un gelido inverno polare; subito raggiunse con la linea principale della metropolitana il palazzo di giustizia.
Il passo era così veloce che in strada già pensava al lavoro da sbrigare, alle indagini da espletare anche quel giorno nella veste di magistrato requirente e pubblico ministero.
Alle otto e quindici raggiunse il suo ufficio, e come ogni mattina il personale di ruolo della segreteria penale provò imbarazzo a portarsi con ritardo innanzi alla giovane sostituto procuratore della repubblica perché avevano fatto colazione al bar, gustandosi un buon cappuccino caldo, i cornetti alla crema, al cioccolato, e infine fumato delle bionde sigarette americane, in compagnia dell’ozio mattutino dei colleghi delle cancellerie penali.
Alle nove meno dieci aveva già visionato alcuni fascicoli processuali e immediatamente, con entusiasmo, si portò nella stanza del signor procuratore della repubblica, con il quale trascorse una lunga mattina, programmando le attività delle indagini correnti e la gestione dei lunghi e noiosi dibattimenti del tribunale collegiale romano.
Alla sostituto procuratore e al suo capo naturalmente era cosa gradita curarsi delle notizie di reato dalle quali trapelavano le verità nascoste all’opinione pubblica, al fine di trarre la notorietà ed encomi per l’ufficio ricoperto del pubblico ministero e, senza dirlo, per loro.
Il dottor Dario Gaymonat, procuratore della repubblica presso il tribunale di Roma, quel giorno era orgoglioso di portare avanti delle delicate indagini, avviate nel pieno del segreto istruttorio appena due settimane prima, che conducevano a persone dell’alta finanza pubblica e agli uomini politici più accreditati di palazzo Chigi e del governo.
Egli voleva capire se sussistessero dei connubi tra gli insider trading alla borsa di Milano, comunicati alla procura dalla consob, e gli uomini fidati dello staff del presidente del consiglio: nonostante i mercati finanziari di Londra e wall Street fossero in ribasso e avessero chiuso col segno negativo, dai loro uffici governativi romani questi riuscivano con le veloci vendite, e a volte con gli acquisti, a trarre dei lauti guadagni sulle blue chips del principale listino di borsa nazionale o sul nasdaq americano.
“Lorella e io stiamo facendo delle delicate analisi investigative sulle blue chips americane e sui titoli tecnologici del mercato nazionale, le cui società possiedono importanti partecipazioni azionarie nelle holding statunitensi quotati al nasdaq”, disse il capo a un altro sostituto procuratore, nel frattempo entrato nell’ufficio personale del procuratore capo.
“Appare strano che, indipendentemente dai rialzi e soprattutto dai ribassi delle borse mondiali, gli uomini vicini al ministro del tesoro e a quello delle telecomunicazioni, appartenenti al cerchio magico del presidente del consiglio, riescano ad avere sempre dei lauti e forti guadagni.
La Consob ha notato tali movimenti repentini, sospettando dell’insider, e una lettera coperta dall’anonimato è pervenuta alla nostra procura, puntando il dito direttamente sui due ministri, i cui collaboratori ripeto sono vicini al premier.
Non vi pare che possa esserci una tacita, implicita convivenza tra il presidente del consiglio e gli uomini del suo staff, vicini ai ministri interessati, che con le loro direttive e le deleghe incidono sulla volatilità dei titoli tecnologici”, puntualizzò il dottor Gaymonat al suo sostituto procuratore dell’ufficio giudiziario romano, alla presenza di Lorella, al momento leggermente in disparte, poiché ella, nel frattempo, con gli occhi attenti e le mani affusolate, sfogliava sulla scrivania i documenti coperti dal segreto istruttorio, e che intervenne subito nella discussione.
“Se l’intuito femminile non mi inganna”, disse amletica la collega, inserendosi nel colloquio di lavoro, “il nostro presidente del Consiglio non può non sapere.
In politica ci sono dei passaggi che non si è soliti trascurarli; pena l’isolamento dei furbi e le revoche delle deleghe ai potenti.
In fondo, al ricevimento serale di ieri, la first lady mi diceva di essere preoccupata degli elevati investimenti che la famiglia aveva fatto nelle immense tenute di piana di Agrippina, e di certo non è una coincidenza che tali investimenti siano stati coperti dagli utili azionari conseguiti dalla cassaforte di famiglia, la San Goffredi & C., la quale controlla con degli informali patti e altri investitori istituzionali i trend dei titoli tecnologici, caratterizzati da un’ampia volatilità, dalla presenza di numerosi investitori privati e di insider improvvisati che non si fanno scrupoli a seguire il mercato al rialzo o al ribasso, dunque a non fissare un prezzo di acquisto, passando al meglio gli ordini di acquisto e, se presi da panic selling, di vendita.
Indagheremo”, replicò decisa, continuando a sfogliare con l’indice il fascicolo sotto i suoi attenti occhi; “disporremo le intercettazioni telefoniche dei brokers che guidano le operazioni tecniche e degli uomini politici che non sono coperti dall’immunità parlamentare”.
Iniziava, pertanto, una giornata lunga e intensa, ma al procuratore capo e ai suoi sostituti piaceva così: l’aria elettrica e spumeggiante delle indagini mise l’adrenalina nei movimenti mattutini dei componenti l’ufficio del pubblico ministero, cementando la solidarietà professionale che nasceva in quei magistrati della procura, animati dagli ideali di giustizia e dalla voglia dichiarata di reprimere i reati.
Il procuratore provava un grande affetto nei confronti dei due sostituti che maggiormente lo collaboravano e, in particolare, per la giovane e laboriosa collega settentrionale.
E l’affetto era reciproco, essendo lo stesso procuratore rispettato non solo per le sue capacità professionali e la preparazione giuridica, ma anche per le qualità umane, che lo facevano sembrare ai loro occhi un buon padre.
“L’indagine sarà seguita dal dottor Lorenzo Marletta”, disse il procuratore, rivolgendosi ai due colleghi, tenendo in mano una delle tre fumanti tazzine bianche di caffè espresso che poco prima la collaboratrice di cancelleria, entrata nella stanza, aveva poggiato sulla scrivania del dirigente.
“Le questioni tecniche e giuridiche della presente indagine sono complesse, e il diritto societario non è il tuo forte, Lorella.
Poi, vi è da considerare un motivo di opportunità a non partecipare, astenendoti dal seguire il procedimento di iscrizione contro ignoti della notizia di reato di aggiotaggio, considerati i tuoi legami di amicizia personale con la famiglia del presidente”.
La giovane donna, magistrato dell’ufficio requirente, ebbe un momento di disappunto, obiettando che l’indagine come da ruolino avrebbe dovuto essere sua e che, in ogni caso, ella avrebbe svolto un ottimo lavoro, anche se era ben a conoscenza che Lorenzo aveva frequentato dei master all’università della Bocconi di Milano in diritto societario e gestione d’impresa, e aveva conseguito un diploma di specializzazione post universitario in diritto bancario e gestioni delle società per azioni, che di certo costituivano un buon motivo per la sostituzione.
Osservò, tuttavia, con lucidità certosina che le costava molto, che vi fossero delle ragioni oggettive nell’assegnazione dell’indagine al collega milanese, il quale, nel frattempo, sorseggiava lentamente il suo caffè, ascoltando in silenzio.
“Ti è andata bene, Lorenzo.
Il caso è tuo”, gli disse la giovane collega, con un’amarezza che a mala pena la sua voce riuscì a nascondere e contenere.
“Mi farebbe piacere averti al mio fianco Lorella”, ribadì il dottor Marletta; “le tue intuizioni femminili colgono gli indizi di colpevolezza che a me sicuramente sfuggiranno”, rispose lui con sincera comprensione.
Lorella aveva le proprie idee in materia di repressione di reati, ma se il suo cuore era vicino alla famiglia del presidente e l’indagine poteva condurre vicino al suo staff, ella era altresì un’assertrice convinta che il rispetto della legalità fosse garanzia di civiltà e di progresso della nazione.
A qualsiasi costo.
“In certi casi, essere amica del presidente del consiglio può addirittura aiutare a capire il caso giudiziario; dai movimenti di denaro e dagli ordini azionari è possibile dedurre quali operazioni sottostanti siano state effettuate e se queste, dai circuiti e investimenti che hanno percorso, sono antigiuridiche oppure lecite.
E va bene, vuol dire che in questi giorni starò buona e di pomeriggio andrò in giro per i negozi della città, a fare shopping con il mio Fabrizio, magari in via Condotti o in via del Babbuino o nelle stradine principali adiacenti a piazza del Popolo”.
Il procuratore conosceva Lorella e quanto fosse innamorata del suo uomo, ammirandone la diligenza e la preparazione, ma sapeva che era una donna e amava confrontarsi, discutendo i suoi casi; sarebbe stato più forte di lei il desiderio di parlarne con il suo uomo.
Invitò dunque, rivolgendole lo sguardo, la giovane sostituto di mantenere il segreto, di essere accorta e di non discutere alcunché con l’avvocato Fabrizio Berti.
Per un lungo momento, Lorella rimase in silenzio, con gli occhi lucidi, che quasi trattennero le lacrime e le emozioni.
Ella riponeva in Fabrizio il massimo della sua fiducia, ma non si sentì offesa per quanto detto dal suo capo.
In fondo, il procuratore non era un maschilista, e la sua osservazione era vera; lei amava dibattere le questioni con i colleghi, e il sospetto dell’anziano procuratore, che lei si confidasse anche con l’avvocato Berti, era assolutamente fondato.
“Non ne discuterò con Fabrizio”, replicò con decisa convinzione, quasi un giuramento, la donna al suo capo.
“Mi piacerebbe valutare i casi giudiziari da sola – obiettò – ; spesso però le mie intuizioni derivano da un leale confronto con conoscenti del diritto che analizzano gli elementi indiziari da un’angolazione diversa dalla nostra di uomini dello Stato e di magistrati requirenti, e dunque di parte.
Questo è il segreto del successo della chiusura delle ultime mie indagini investigative; soprattutto in materia di antiterrorismo e antimafia, portati avanti nel trimestre passato”.
Lorella, con orgoglio professionale, ricordò al capo che lei era stata l’artefice della emissione ed esecuzione delle ultime ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dalla procura della repubblica a carico dei brigatisti rossi della colonna romana, braccati da cinque anni dai diversi corpi di polizia e servizi di sicurezza nazionale, arrestati in città solamente un mese dopo che ella aveva avuto la delega delle indagini dal procuratore in persona, i quali si erano traditi – ricordò – per avere utilizzato delle cabine telefoniche pubbliche, vicine al ministero del welfare, onde rivendicare gli ultimi attentati e per avere fatto rinvenire materiale di incitamento alla lotta armata e rivoluzionaria presso la principale mensa universitaria della capitale.
Era stato Fabrizio Berti, come la giudice aveva confidato al capo, a dire alla donna che “il lupo mai abbandona la tana, il ricercato si nasconde nel suo territorio e il camaleonte vive in mezzo alla vegetazione; come un mafioso che mai si allontana dal suo paese e predispone dei covi che gli consentono di controllarsi la zona ed il quartiere d’influenza criminale”.
Fabrizio osservò a Lorella che era notorio che il territorio principale della mafia fosse la Sicilia e Palermo, che la ‘ndrangheta operasse in Calabria e sui monti dell’Aspromonte, mentre la camorra attanagliava la città di Napoli e il suo hinterland, coltivando gli affari illeciti nei quartieri a più alto tasso criminale; dunque, anche le brigate rosse nella città eterna percorrevano dei circuiti territoriali, certamente circoscritti e diversi, ma non dissimili da quelli d’altre organizzazioni criminali nazionali.
Lorella intuì quanto le fosse suggerito dal suo uomo.
Nella sua attività d’indagine avrebbe dovuto individuare i luoghi e i quartieri nei quali si muovevano i singoli brigatisti rossi della cellula di Roma, ricercarne la presenza mediante uno screening dettagliato, infine individuarne i ruoli e le persone.
Il gioco ebbe una facile soluzione: se gli uffici del ministero del lavoro e la principale mensa universitaria, nella quale erano stati lasciati dei volantini di incitamento alla lotta armata, avessero una relazione, bastava procedere a un’attività di indagine simile all’analisi di un grafico sopra degli assi cartesiani, mediante l’individuazione dei punti di intersezioni sulle ascisse e sulle ordinate: occorreva verificare l’esistenza della curva nel grafico e il suo eventuale ordine logico.
Lorella incaricò la sezione di polizia giudiziaria della procura della repubblica presso il tribunale di Roma a farsi consegnare dall’ufficio personale del ministero del lavoro gli elenchi dei suoi dipendenti di via Veneto: l’indagine fu portata avanti dal luogotenente dei carabinieri signor Ardito, il quale controllò a tappeto, su disposizione della sostituto procuratore, i titoli di studio di ciascun pubblico impiegato al ministero di via Veneto e di via Fornovo, in particolare di coloro che fossero anche studenti universitari o avessero un qualsivoglia rapporto di lavoro, volontariato o attività ricreativa, con il mondo accademico dell’università La Sapienza.
Furono così individuati sedici dipendenti che abitavano vicino la sede del ministero del welfare e consumavano i pasti giornalieri alla mensa universitaria di via Cesare Le Lollis; dodici impiegati scapoli e quattro sposati, di cui tre donne maritate e tutte senza figli, che frequentavano la mensa di via Catilina perché iscritti in giurisprudenza o alla facoltà di scienze politiche dell’università principale della capitale.
Lorella esaminò anche, e attentamente, le schede personali dei sospettati, chiese al centro elaborazione dati del ministero dell’interno e alla questura locale le ultime residenze comunali degli indiziati, visionò pure se le persone sospette avessero dei carichi pendenti in procura oppure segnalazioni alla polizia.
Tre segretari amministrativi, uno addetto all’ufficio relazioni con il pubblico, gli altri due coadiutori dei consulenti esterni al ministero e una centralinista risultarono di avere avuto negli anni ottanta- novanta, delle esperienze politiche nel mondo operaio della sinistra italiana e partecipato alle manifestazioni studentesche o di operai, nelle quali vi erano stati forti scontri fisici e lanci di molotov contro la polizia di stato e i carabinieri: occorreva chiudere il cerchio.
Disposte le intercettazioni telefoniche e ambientali sulle utenze telefoniche dei quattro indiziati, piazzate le microspie all’interno delle loro autovetture utilitarie, si era potuto appurare con certezza che uno dei tre segretari amministrativi del ministero interessato era un iscritto nostalgico del vecchio partito comunista italiano, scapolo senza idee e amante di un’avvenente signora della città capitolina, dal carattere buono e indifferente, inserito stabilmente in una comunità ecclesiale della parrocchia di Sant’Egidio in trastevere, mentre gli altri tre sospettati, due uomini e una donna, odiavano il sistema politico nazionale, avevano dei contatti con i compagni della sinistra radicale delle città di Firenze e Bologna e stavano preparando un nuovo attentato alla vita di uno dei due sottosegretari del ministro del welfere, colpevole di presentarsi come un tecnico moderato del grande centro, esperto in diritto sindacale e del lavoro, da loro segnato e condannato a morte come nemico del proletariato!
Le indagini si estesero ad altri sospettati, residenti a Roma e in altre regioni del centro Italia.
La richiesta immediata di tredici ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di altrettante persone, a firma della dottoressa Lorella Alfieri e presentata tempestivamente al giudice delle indagini preliminari del tribunale della capitale, scongiurò un attentato alla personalità politica designata e inflisse un colpo mortale alle nuove brigate rosse che si erano riorganizzate a Roma, nella città del grifone e a Bologna, un tempo considerata rossa, dotta e grassa.
Il ministro dell’interno e il presidente del consiglio in persona si erano congratulati con la sostituto procuratore Lorella Alfieri, per l’elevata professionalità di sgominare la nuova cellula criminale delle brigate rosse che aveva consumato dei delitti politici eccellenti, che preparava un nuovo devastante attentato alle istituzioni e aveva tenuto per anni in scacco le intelligence dei servizi segreti italiani ed esteri, del Viminale e della difesa nazionale.
Ricordò pure che nella grande sala stampa predisposta negli uffici della procura, la giudice ebbe l’onore di presentare l’eccellente risultato investigativo ai mass-media e ai network nazionali, guardando diritto alle telecamere, assumendosi la responsabilità di comunicare all’opinione pubblica che era stato inflitto al terrorismo rosso italiano e alla sua colonna romana un colpo forse definitivo, mortale.
Ora invece, non le era assegnato un caso nel quale ella avrebbe lavorato con attenta passione e lucidità professionale.
Lorella, dopo essersi sfogata con il procuratore per un minuto lunghissimo e nero quanto un funerale, rimuginò furiosa di quello che era successo, convinta sempre che qualsiasi indagine giudiziaria le fosse congeniale; poi si mise al lavoro nel suo ufficio, accompagnata dal dottor Marletta, cercando di decidere quale fascicolo processuale fosse più opportuno visionare quella mattina, oramai vicina alla pausa del pranzo.
Erano quasi le dodici e trenta quando i due sostituti finirono il lavoro collegiale e Lorella si ricordò di avere dimenticato di telefonare a Fabrizio; era seccata e sbuffò: neanche il fidanzato l’aveva chiamata sul numero riservato del suo cellulare.
Sbuffò.
Con una scusa si allontanò dal collega, con il quale si era finalmente deciso alcuni attimi prima di darsi reciprocamente una mano d’aiuto nelle rispettive indagini, e dopo avere telefonato a Fabrizio, intrattenendolo per una ventina minuti, rimase sola nel suo ufficio tutto il pomeriggio, mangiando un panino alla caprese, con pomodori di Pachino, dei quali in Sicilia aveva da poco tempo scoperto il gusto e la prelibatezza, bevendo poi una coca cola che, invece di spegnerle la sete, la eccitò e fece arrabbiare ancor più per l’inizio della giornata che lei considerava cattiva.
Si ritrovò alle quattro di pomeriggio con Lorenzo, e i due si scambiarono alcune valutazioni sull’indagine affidata al compagno che, se avvalorata, sarebbe stata certamente esplosiva; forse avrebbe costretto alle dimissioni il presidente del consiglio e l’intero governo dei ministri, riportando la nazione a nuove elezioni anticipate.
“Ti sei fatto un’idea da dove iniziare”, domandò reattiva Lorella al collega.
Quella mattina i primi faldoni del materiale d’indagine erano pervenuti all’ufficio del sostituto procuratore in tempo reale rispetto alle operazioni di borsa; dunque, con una spaventosa e immediata celerità, il giudice requirente, dopo il pranzo e già nel mezzo del pomeriggio, aveva visionato e appurato che nelle carte processuali vi erano contenuti normalissime operazioni di vendita e di acquisti dei titoli azionari tecnologici interessati, dove funzionari vicini allo staff del presidente, in alcuni titoli avevano addirittura incassato delle minusvalenze, ossia delle perdite.
“Possibile che l’indagine investigativa si rivelasse un flop?
E se la lettera anonima, pur se corroborata di dati apparentemente certi, rivelatisi poi incompleti, fosse stata una mera manovra dell’opposizione, oppure fosse il piano di un grande fratello che speculava contro gli uomini dello staff del presidente, dunque contro lo stesso governo”?
Tanto era la voglia della giovane donna di telefonare al suo confidente e amante, non appena seppe dal collega titolare del procedimento che vi fosse nell’indagine una grave carenza indiziaria; Lorella però si era impegnata formalmente con il procuratore e con se stessa a non domandare consigli al suo compagno.
E poi, l’avvocato Berti nulla sapeva della notizia di reato, dei fatti ivi contenuti.
Accidenti! Fabrizio era un esperto di borsa e chissà se anche questa volta egli non sarebbe stato in grado di suggerirle la chiave per la soluzione del bollente caso quotidiano, che in procura aveva interessato giorni prima il procuratore e il suo staff di polizia tributaria, fatto di esperti fiscali e professionisti, ed ora metteva in crisi il sostituto titolare.
Ma dove era il giovane legale.
Si erano fatte le ore diciannove e quindici, il pomeriggio era volato via velocemente e lui non l’aveva ancora chiamata da quanto lei lo aveva sentito nella pausa pranzo.
Lorella prese nuovamente il suo telefonino e compose il numero telecom di Fabrizio, pigiando sul tasto verde del suo cellulare e richiamando immediatamente l’ultima telefonata della giornata.
“Non ti sei fatto sentire, Fabrizio”, lo redarguì.
“No, pensavo che lo avrei fatto più tardi”, le rispose per rassicurarla.
“Durante la giornata ti ho pensato e mi sei mancata”.
Anche tu mi sei mancato. Non sai quanto…” disse lei amletica.
“Vediamoci in procura alle ventuno e, mi raccomando, sii puntuale.”
“Okay. Un bacio, dolcissimo tesoro; a presto”, le rispose.
La donna spense il cellulare e iniziò nuovamente a lavorare sola nel suo ufficio, senza l’assistenza della segreteria che aveva abbandonato il palazzo di giustizia non appena era scattata l’ora sindacale delle quattordici, fino a quando Fabrizio l’andò a cercare per portarla via.
Era quello che desideravano entrambi, dopo quella giornata che si era annunciata infernale e che, almeno per la donna, era stata tale.
Nel tragitto, il giovane le ricordò che aveva prenotato un tavolo al solito ristorante, non gli andava di cenare a casa e gradiva dialogare.
L’automobile s’indirizzò verso il locale, ma i due stranamente non parlarono molto; lui intuì che vi fosse qualcosa che in ufficio non era andata, poiché la compagna aveva l’aria stanca e assorta, senza che sprigionasse l’usuale fierezza e dinamismo; poi le sembrò arrabbiata.
Quanto a lei, era poco abituata a non parlare al suo compagno, alla guida dell’autovettura che li portava nel più rinomato ristorante giapponese della capitale, vicino il Campidoglio e a lato dei fori imperiali, dove un sushi squisito, accompagnato da una bottiglia di vino bianco delle colline senesi, avrebbe forse reso gradevole la serata.
“Non vuoi dirmi qualcosa”, le domandò il conducente.
“No, è un segreto e ho promesso di non dirti niente, ma accidenti avrei voglia di…”
“Ehi, qualcosa l’ hai detta. Hai fatto una promessa e qualcuno ti ha chiesto di non rivelarmela.
Ho capito, il tuo capo ti ha strappato la promessa e tu vuoi mantenerne il segreto, anche a costo di farmi il muso per il resto della serata.
Lo sai che mi piaci anche quando sei silenziosa”.
“E’ così. Sei il solito incorreggibile, impertinente e… perspicace! Accidenti, oggi in procura abbiamo trascorso una giornata infernale.
Sembrava che delle importanti decisioni avrebbero cambiato il mondo, e invece… Che rabbia!
Ma adesso non dirmi niente, parcheggia l’auto; ho una fame da matti”, chiosò lei ostentando impazienza e voglia di trascorrere la serata.
Lui pensò che la ragazza fosse stata preoccupata per il suo lavoro. Ciò nonostante, poteva chiamarlo al telefono e domandargli un consiglio.
Lui l’avrebbe aiutata, come sempre.
“Va bene, ma adesso pensiamo a cenare e che Dio ce la mandi buona; lo sai che adoro la cucina mediterranea ed il sushi è per me una novità”, puntualizzò l’uomo con uno sguardo più disteso e un tenero sorriso.
“Tu invece sei la mia novità, e mi hai cambiato la vita”, disse la donna, con occhi lucidi, riprendendosi dall’aria triste, ritrovando il sorriso di sempre, volendo gettarsi alle spalle i pensieri che le rimuginavano in testa.
“Non te lo mai detto, ma io ti voglio veramente un mondo di bene.
Io ti amo più della mia stessa vita”, gli dichiarò istintivamente.
Fabrizio dopo quella confessione, stranamente fu quasi sconvolto, impreciso nel valutare il perché Lorella avesse l’animo contrito e lo spirito cangiante, anche con quella dichiarazione d’amore che avrebbe dovuto renderlo felicissimo; il resto della serata volse a notte fonda e il ragazzo si comportò da perfetto cavaliere, da buon interlocutore, mostrandole di esserle vicino.
La giornata era stata stressante per entrambi e anche lui era stanco; non restò ai due innamorati che andare a casa del giovane, nel loro nido d’amore, dove Lorella oramai abitava da più di un anno in pianta stabile.
Quella sera, mentre si tornava a casa con l’inseparabile autovettura dalla linea avveniristica, la donna pensò al suo segreto parzialmente violato; e nuovamente volle chiedere al compagno se avesse avuto contatti con lo staff del presidente per l’incarico che Fabrizio aveva ricevuto nella commissione sulla sicurezza nazionale.
Poi le venne in mente che il suo ragazzo a cena era stato affabile e cortese, però poco romantico con il suo silenzio quando ella ebbe a confidargli il suo amore, e pur guardando la strada e i palazzi barocchi ed illuminati che le scorrevano davanti, con un volo pindarico voltò il pensiero agli anni migliori della giovinezza e all’ex marito, dal quale era separata e aveva ottenuto l’annullamento del matrimonio; ricordò del coraggio che aveva avuto di fuggire dalla gabbia dorata di palazzo Toni Capolecase e di averlo lasciato senza domandare l’assegnazione della casa coniugale.
Solo un buon assegno mensile, che rimpinguava lo stipendio dell’amministrazione giudiziaria e le assicurava l’antico tenore di vita coniugale, le era stato assegnato dal presidente del tribunale civile; ora meditava di comprare una dimora nella città capitolina, vicino agli uffici della procura che era per lei la sua vera casa.
Più dello stesso attico di Fabrizio.
La coppia raggiunse velocemente la loro casa, andando subito a letto, stanti delle fatiche del giorno.
Quando l’indomani Lorella ritornò al lavoro, incontrò nel corridoio dell’ufficio giudiziario il dottor Gaymonat.
Era un martedì del mese di ottobre, nel quale fu possibile effettuare in tribunale la pausa mattutina nella stanza del procuratore e consumare un caffè espresso, stretto e accompagnato da una goccia di latte scremato, poiché quel giorno, fortunatamente, non si celebravano le udienze dibattimentali.
“Lei ha appreso dal dottor Marletta dell’infondatezza della notizia di insider?
L’obbligatorietà dell’iscrizione della notizia di reato è una distorsione del sistema processuale”, osservò il grande capo alla collega.
“Grazie a Dio”, commentò la donna.
“Si immagini cosa sarebbe successo nel mondo politico e le reazioni dell’opposizione e dell’opinione pubblica contro il nostro Presidente.
Poi Fabrizio… E’ ogni giorno sempre più vicino a lui e credo che prima o poi entrerà permanentemente anche nel suo staff legale, curandone gli affari.
Mi creda, dovrei essere orgogliosa dell’uomo che amo, invece ho paura…
Credo, inconsciamente, che un domani noi ci scontreremo professionalmente, allora Fabrizio avrà delle grosse delusioni”.
“Non capisco a cosa stia alludendo”, osservò inquieto il procuratore.
“Certamente è un risiko per una giudice requirente convivere con un avvocato penalista”, puntualizzò l’uomo.
“Bisogna notare però, che ad un giudice è possibile essere la controparte processuale di un avvocato nelle indagini investigative, e allo stesso tempo averne un confronto leale.
Debbo confidarle che Fabrizio Berti è un buon difensore e mi è pure simpatico, anche se negli schieramenti interni del foro di Roma è vicino al presidente della camera penale locale, il quale invece è un uomo disgustoso e senza alcun principio, intellettualmente obeso come le sue carni penzolanti sopra e sotto i pantaloni: questi crede di essere un giurista colto e molto potente, un avvocato intoccabile che incarna la summa della giustizia, al quale piace apparire e circondarsi di donnine giovani e affascinanti.
L’avvocato Scaiola, presidente della camera penale, troverà pane per i suoi denti se ritornerà a sproloquiare contro la magistratura di Roma”, tuonò il procuratore, con la voce minacciosa, una sottile ironia e con rigorosa decisione, consapevole che entrambi operassero su campi diversi.
Lorella, alle parole persuasive del dottor Gaymonat, cadde prigioniera dei suoi pensieri, valutando l’ipotesi che Fabrizio potesse rovinarsi se continuava a essere solidale a quell’uomo meschino e arrogante, monopolizzatore dei media e denigratore dei giudici della procura; iniziò a confidarsi apertamente con il suo collega, di molti anni più anziano, eppure uomo saggio e affascinante, dallo sguardo magnetico anche se aveva superato abbondantemente i cinquantasette anni.
Lei, in città aveva molte amicizie, ma la conversazione con l’amabile collega, sempre gentile e premuroso nei suoi confronti, la portò a dubitare di Fabrizio e le iniziò a causare dell’imbarazzo, misto a una strisciante ritrosia; il rischio di svelare al convivente dei segreti d’ufficio era molto alto – pensò -, però lei amava confrontarsi lealmente, poiché dal dibattito dialettico nascevano le nuove piste investigative e le ipotesi di reato.
Iniziò, come l’araba fenice, ad insinuarsi in lei il dubbio che questi non fosse la persona adatta alle sue confidenze professionali.
In fondo, era consapevole che i suoi migliori successi investigativi erano moralmente da dividere con un uomo che per professione si trovava dall’altra parte della barricata, e per di più un avvocato, categoria di giuristi con la quale, eccetto il compagno, mai era andata d’accordo, pur ricevendone l’ammirazione e contro i quali, da giudice monocratico, aveva trasmesso una miriade di volte delle segnalazioni ai consigli dell’ordine degli avvocati di appartenenza.
Il dottor Gaymonat invece appariva onesto, serio, responsabile, e il suo naturale umorismo di uomo del mondo della provincia trapiantato nella capitale, amato dai colleghi della procura e dai componenti dei collegi giudicanti, non ne minava l’equilibrio.
Valutò l’ipotesi che il capo potesse andarle a genio come amico, e in quel dibattito gli chiese se in privato potessero darsi del tu.
“Certamente”, le rispose, compiacendosi di quella richiesta condivisa e intima.
Erano mesi che Lorella faceva parte dell’ufficio della procura di Roma, e se vi erano dei magistrati simpatici, tra questi al primo posto c’era certamente il procuratore capo, il quale con lei era sempre disponibile, gentile e aperto al dialogo.
Ora dargli del tu e chiamarlo in privato con il nome di battesimo, non formalizzavano una violazione delle norme deontologiche e comportamentali, anzi le davano un vero amico verso il quale aprirsi senza che vi fosse il sospetto di entrare in conflitto d’interessi.
Poi, gli altri colleghi non erano così simpatici e umoristi come Dario, anzi sul loro conto vi era molto da ridire, in particolare sui modi di vestire fuori moda, di vivere una vita opaca, oppure di affrontare ogni giorno le indagini investigative senza il carattere e il rigore che li distingueva.
Lei era più brava e forse gli altri magistrati requirenti dell’ufficio giudiziario romano, ad eccezione del dottor Marletta, erano gelosi.
E il procuratore, esperto uomo di vita, ne era consapevole.
Di molti anni avanti, Dario le assomigliava nella determinazione di raggiungere gli obiettivi professionali e di identificarsi nei successi investigativi dell’ufficio; poi non gli dispiacevano gli incontri montani e la vita nella Roma bene, vicino alle persone di spicco nei salotti capitolini e con lo sguardo del controllore discreto dei potenti.
Iniziarono i due magistrati una piacevole conversazione e l’amabile collega, in quei lunghi e piacevoli minuti, ebbe una nuova luce sul viso, dandole conferma che il dottor Gaymonat fosse un uomo sempre allegro, sicuro di sé e disponibile al dialogo intellettuale, che si mostrò subito come il suo nuovo, unico e vero amico.

Il tempo, su quella nuova e autentica amicizia, le avrebbe dato la risposta.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here