Stanno tutti bene, storia di una disincantata paternità

 
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Gela. 1990. Non è mai facile ripagare le attese, soprattutto dopo un successo planetario. Queste sono le premesse che accompagnavano l’ancora giovane Giuseppe Tornatore prima dell’uscita in sala del suo nuovo film. Il regista siciliano, più precisamente bagherese o meglio baariota, era reduce infatti dal trionfo agli Oscar per Nuovo Cinema Paradiso, e le alte aspettative erano da ritenersi del tutto giustificate. Sarà riuscito Tornatore a pareggiare lo splendore del precedente film? A mio giudizio, nonostante il minor clamore ricevuto, “Stanno tutti bene” riesce addirittura a superarlo.

Virtuosismo non è una parolaccia. Tornatore è spesso accusato di autoreferenzialità, di estetica fine a se stessa, ma come si può non rimanere affascinati di fronte a tale maestria, i movimenti di macchina e le carrellate sono a dir poco pionieristici per gli standard italiani del tempo, le scenografie curate nei minimi dettagli fanno di ogni inquadratura un dipinto. Le brevi scene surreali, che sembrerebbero fuori contesto, fungono da via per lo spettatore nell’animo dei personaggi, come a dire che la storia si svolge soprattutto dentro di loro e non è solo l’esterno svolgersi di eventi. Mi riferisco a un’immagine che si vede più volte nel film, quando il protagonista cerca di telefonare al figlio di cui non ha più notizie, ogni volta che scatta la segreteria telefonica tutto il mondo circostante si ferma, formando una suggestiva figura del sentimento di un forte sentimento di ansia. Ho accennato al protagonista, Matteo Scuro è interpretato dallo straordinario Marcello Mastroianni, nella parte dell’anziano padre di famiglia ci regala una performance commovente, anche se non è il suo ultimo film, mi piace considerare la sua prova come un testamento professionale, immenso.

La trama. Matteo Scuro è un pensionato siciliano, in provincia di Trapani, ex-impiegato all’anagrafe. Vedovo, è solito trascorrere le giornate dialogando con la moglie defunta, immerso nei ricordi di famiglia. Il suo più grande desiderio è quello di riunire i figli intorno a un tavolo come una volta, tutti e cinque però, vivono ormai lontano dal paese natale, nel continente. Incapace di resistere al richiamo del sangue, decide di partire in un viaggio lungo tutta l’Italia per far visita a ognuno di loro. Sarà un viaggio difficile, perché dovrà fare i conti con la distanza che separa i suoi ricordi, le sue aspettative, il suo orgoglio dalla realtà. Prima di partire pensava di trovare i figli belli e “sistemati”, ma dovrà ricredersi, li aveva educati con fermezza per fargli raggiungere il successo, ma la vita a volte riserva delle sorprese.

Il vino si fa con l’uva. Il significato di questo film si può sintetizzare in questa misteriosa frase che Matteo ripete più volte nel suo lungo viaggio. Spesso ci sforziamo di raggiungere uno scopo attraverso strade complicate ma in realtà la risposta che cerchiamo sta nella via più semplice e naturale. Il nostro protagonista imparerà che non c’è una ricetta per educare i figli ad essere qualcuno, e che avrebbe dovuto amarli per quello che sono, non per quello che hanno.

Una storia comune. Difficile non sottolineare infine, la situazione da cui parte la nostra storia, penso che tutti noi potremmo rivederci in questa famiglia. Il nostro paese che invecchia da solo mentre i suoi figli sono obbligati ad andare lontano per vivere. Non possiamo fare altro che constatare come ognuna delle parti, oggi sia costretta a perdere un pezzo di se stessa, i padri il futuro e i figli le radici.

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