Un Eco che risuona sulla televisione

     
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    Gela. Il 25 ottobre scorso la casa editrice La Nave di Teseo ha pubblicato una consistente raccolta di saggi e articoli di Umberto Eco dedicati alla televisione (“Sulla televisione. Scritti 1956-2015”, 533 pagg.), messa insieme dal semiologo Gianfranco Marrone, il quale, pur dichiarando in premessa che la “raccolta non ha l’ambizione di essere esaustiva”, è riuscito nell’impresa di scovare alcuni testi considerati ormai pressoché introvabili e di offrire ai lettori un quadro cronologico esauriente degli stessi “periodi” dell’evoluzione del pensiero di Eco nei suoi sessant’anni circa di attività.
    Questa pubblicazione postuma, della cui preparazione lo stesso Eco era al corrente, come ci informa Marrone, cade in un momento particolarmente propizio, perché è in corso un grande dibattito internazionale sui media digitali e sul loro ruolo economico, politico ed educativo che rivela quanto vive siano ancora le analisi echiane del medium televisivo di quasi sessant’anni fa. Si pensi ad esempio, per rimanere a titoli recenti, al libro di Jaron Lanier, “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”, di cui ci siamo occupati nell’articolo precedente; oppure si considerino due libri italiani usciti nei primi giorni di ottobre. Il primo, “The Game” (Einaudi) dello scrittore Alessandro Baricco, è un tentativo brillante di tracciare, “sine ira et studio”, la complessa mappa della civiltà del Gioco in cui l’umanità si trova immersa in seguito alla rivoluzione digitale di quarant’anni fa, adattandosi a vivere in una realtà aumentata a doppia forza motrice, quella del mondo fisico e quella dell’oltremondo in rete. Il secondo, “Il regno dell’Uroboro. Benvenuti nell’era della solitudine di massa” (La Nave di Teseo) del costituzionalista Michele Ainis, si concentra sulle conseguenze politiche di quella particolare condizione dei naviganti della rete, ben messa in luce dall’informatico Lanier nel suo libro, per cui ciascun utente è immerso in una bolla di informazioni personalizzate generata automaticamente dagli algoritmi dei motori di ricerca sulla base delle interazioni precedenti del dispositivo che sta usando (i cosiddetti “feed”). Dato che la democrazia presuppone la pluralità dei punti di vista, e dato che nel regno dell’Uroboro l’utente porta sempre uno specchio davanti a sé e incontra sempre se stesso, come il serpente che si morde la coda, ecco che il regime in cui abbiamo accettato di vivere è incompatibile con la nozione tradizionale di democrazia su cui si fonda la civiltà occidentale.
    È interessante osservare che, mentre quelli di Lanier e Ainis sarebbero due approcci “apocalittici”, secondo la vecchia terminologia di Eco relativa alle posizioni rispetto alla cultura di massa in generale e alla televisione in particolare (sebbene con qualche sfumatura diversa, visto che Lanier è tra i progettisti della rivoluzione digitale), le loro analisi apparentemente simili finirebbero in caselle diverse nella classificazione di Baricco. Quest’ultimo, infatti, vede il Game attaccato criticamente da tre forze: «i reduci del ’900, non ancora rassegnati, i puristi del Game, che rivendicano la vocazione libertaria delle origini, e gli esclusi dal Game, i riottosi, i tagliati fuori, quelli che non hanno vinto mai» (“The Game”, p. 247). Da questo punto di vista, Ainis è per formazione un reduce, mentre Lanier è l’icona stessa del purista.
    Come si vede da questi accenni, ancora oggi, in un’epoca in cui la televisione è appena un’isoletta del grande arcipelago del Game (è in questo modo che lo ha illustrato il “cartografo” calviniano Baricco), Eco è in grado di fornirci delle chiavi di lettura per decifrare il dibattito attuale relativo ai nuovi media, e i suoi scritti sulla televisione – dal Carosello al Grande Fratello, da Mike Bongiorno a Netflix – lo dimostrano in maniera inequivocabile. Poiché si tratta di una raccolta così vasta ed eterogenea che una sintesi si esaurirebbe in un catalogo di temi poco informativo, e poiché il massimo impegno critico e teorico di Eco è collocabile negli anni Sessanta del secolo scorso, per dimostrare l’attualità delle sue analisi basterà qui concentrarci in particolare su uno dei primi scritti della raccolta.

    Fenomenologia dell’influencer
    Prima, però, non si può non ricordare che la raccolta si apre opportunamente con il celebre “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (1961), un breve scritto che poi sarebbe stato incluso in “Diario minimo” (1963). In questo geniale testo giovanile, che l’allora popolare e influente presentatore televisivo non avrebbe mai digerito, Eco tracciava, tra il serio e il faceto, un impietoso ritratto dell’italiano medio di allora “circuito dai mass media”, attraverso una descrizione fenomenologica – basata cioè sulle sole caratteristiche esteriori, quali il comportamento piccolo borghese, ossequioso con l’autorità e paternalistico con i più deboli, e il modo di esprimersi banalmente referenziale e stereotipato – dell’idolo televisivo cui all’epoca si tributava la massima gloria: il personaggio assolutamente mediocre Mike Bongiorno, in cui “lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti”.
    Ebbene, la cosa triste è che Mike Bongiorno, se confrontato con certi influentissimi “eroi” odierni dei social media, seguiti da milioni di followers spesso ignari persino del loro ruolo commerciale in tutta l’operazione di marketing, appare come un gigante, un campione di cultura, umanità e professionalità. In tal senso, l’analisi di Eco è non solo ancora valida, ma può essere estesa fino a coprire la scala planetaria del web.

    La televisione come problema politico e pedagogico
    Il quarto saggio della raccolta è “Appunti sulla televisione”, che costituisce un capitolo di “Apocalittici e integrati”, uno dei libri giovanili più famosi di Umberto Eco, uscito nel 1964. Originariamente si trattava di una sorta di libero resoconto delle riflessioni emerse nell’ambito di una tavola rotonda su “Influenze dirette fra Cinema e TV”, che precedette l’assegnazione del Premio Grosseto del 1962, e alla quale era presente, fra gli altri, anche Pier Paolo Pasolini. Quest’ultimo, com’è noto soprattutto attraverso una memorabile intervista televisiva con Enzo Biagi, aveva sulla televisione opinioni che, nella terminologia di Eco, si possono classificare come irrimediabilmente “apocalittiche”, mentre in quella di Baricco egli sarebbe un classico “reduce”. Per rendersene conto, e per dimostrare come certe analisi sembrino inserite nel circuito dell’eterno ritorno, basta vedere cosa scriverà sei anni dopo in un articolo su “Giornalisti, opinioni e TV” uscito il 28 dicembre 1968 nella sua rubrica “Il Caos”, tenuta sul settimanale “Il Tempo” dall’agosto 1968 al gennaio 1970: «Il rapporto della televisione con i suoi spettatori è esattamente quello che non dovrebbe essere. Esso è: a) Tipicamente autoritario: infatti tra video e spettatore non c’è la possibilità di dialogo. Il video è una cattedra, e parlando dal video si parla, necessariamente, ex cathedra. […] Insomma, il video rappresenta l’opinione e la volontà di un’unica fonte d‟informazione, che è quella, appunto, genericamente, del Potere. E tiene così in soggezione l’ascoltatore. b) È un medium di massa: essa, infatti, quale fonte di informazione centralistica, è manipolata per ragioni extra-culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli».
    In alcune sezioni degli “Appunti” Eco si sofferma più specificamente sulla televisione in quanto linguaggio e fenomeno di costume che richiede, a motivo del suo enorme potere di influenza e quindi dei pericoli antidemocratici che essa porta con sé, un’attenzione politica e culturale da parte sia degli intellettuali che dello Stato. Innanzi tutto, egli esplora il problema del rapporto tra vigilanza critica e partecipazione emotiva dello spettatore televisivo che, immerso sin da bambino in una sorta di avvolgente “iconosfera”, si trova nella particolare condizione di fruitore in gran parte passivo di un linguaggio dell’immagine (che oggi impera nei social media, notiamo di passaggio). A tal proposito, egli sottolinea il significato politico-culturale che storicamente ha caratterizzato la distinzione tra linguaggio verbale e linguaggio iconico: «Forse la TV ci sta portando soltanto a una nuova civiltà della visione come quella che vissero gli uomini del medioevo di fronte ai portali della cattedrale. […] Ma il linguaggio dell’immagine è sempre stato lo strumento di società paternalistiche che sottraevano ai propri diretti il privilegio di un corpo a corpo lucido col significato comunicato, libero dalla presenza suggestiva di una “icone” [sic!] concreta, comoda e persuasiva. E dietro ad ogni regia del linguaggio per immagini c’è sempre stata una élite di strateghi della cultura educati sul simbolo scritto e sulla nozione astratta. Una civiltà democratica si salverà solo se farà del linguaggio dell’immagine una provocazione alla riflessione critica, non un invito all’ipnosi». Come testimoniavano degli studi psicologici condotti già a quell’epoca aurorale, sui quali Eco si mostra informatissimo, l’“invito all‟ipnosi” è quasi insito nella natura stessa del rapporto fisico e intellettuale che lo spettatore è portato a instaurare col mezzo televisivo, poiché il porsi di fronte a uno schermo dà luogo a una esperienza nuova rispetto a quella – più consapevole e carica di attese intellettuali – che si crea nel rapporto, ad esempio, con un libro: il telespettatore, infatti, nel preciso momento in cui accende l’apparecchio televisivo, è spinto inconsapevolmente ad attendere “qualcosa che non si sa ancora cosa sia, e che comunque è desiderato e valorizzato dalla nostra tensione”. Non appena ha inizio la fruizione vera e propria, possono darsi varie modalità di coinvolgimento emotivo, che dipendono soprattutto dal grado di acculturazione e di autodifesa critica del telespettatore. Si può andare, così, dal “distacco critico più totale” al “giudizio critico che accompagna la fruizione”, e passando attraverso uno stato di “evasione irresponsabile”, si può arrivare “sino alla partecipazione, alla fascinazione o (in casi patologici) all‟ipnosi vera e propria”.
    La cosa importante, poi, è che la vigilanza critica di fronte al linguaggio televisivo è in genere piuttosto scarsa (per i motivi che subito vedremo), e persino i professionisti che vedono un film da critici cinematografici raggiungono il dovuto distacco critico solo a partire dalla seconda visione.
    Questo fatto, che ha una importanza fondamentale per la questione della violenza in TV che avrebbe tanto preoccupato il filosofo Karl Popper nella prima metà degli anni Novanta, non è stato rilevato solo mediante osservazioni sociologico-comportamentali, ma è stato anche appurato con esperimenti elettroencefalografici che hanno quasi anticipato di almeno tre decenni il funzionamento del cosiddetto “sistema specchio”: «Le esperienze fatte portano a ritenere che l’immagine in movimento induca lo spettatore a coagire con l’azione rappresentata, attraverso il fenomeno di induzione posturomotrice: in altri termini, se sullo schermo un personaggio dà un pugno, l’elettroencefalogramma rivela nel cervello dello spettatore una oscillazione equivalente a un “comando” che l’organo centrale, per una sorta di istintiva mimesi, dà all’apparato muscolare; comando che non si traduce in azione solo perché nella maggioranza dei casi il comando è più debole di quanto occorrerebbe per passare dalla reazione nervosa all’azione muscolare vera e propria».
    Questo tipo di ricerche trovano anche riscontro nell’analisi psicolinguistica dei processi cognitivi di comprensione del significato dei messaggi. La comprensione del significato di un messaggio verbale si attua secondo procedure cognitive dove prevale il fattore della ricerca attiva e della selezione consapevole, mentre la ricezione di un messaggio iconico in genere non lascia spazio ad alternative e il significato dell’immagine si impone alla nostra coscienza con una immediatezza tale da non richiedere alcuna forma di attività critica da parte del destinatario.

    Rilevati i pericoli per uno sviluppo intellettualmente sano e critico dei fruitori dei messaggi televisivi insiti negli stessi meccanismi psico-fisici della ricezione del linguaggio iconico, Eco propone una soluzione politica al problema pedagogico e culturale rappresentato dalla televisione, nella persuasione che essa sia ormai “uno dei fenomeni base della nostra civiltà”, e che pertanto occorra anche “incoraggiarla nelle sue tendenze più valide”. In accordo con l’impianto del libro che ospitava il saggio, che in relazione ai vari fenomeni della comunicazione e della cultura di massa cercava di proporre un punto di vista collocato in una posizione intermedia tra quello degli “apocalittici”, chiusi in una posizione di aristocratico e pessimistico distacco nei confronti di ogni nuovo prodotto del progresso tecnologico, e quello degli “integrati”, entusiasticamente e dogmaticamente favorevoli a ogni portato della modernità, Eco prende le distanze sia dal “manicheo” che (come Pasolini e altri) giudica il mezzo televisivo “irrimediabilmente cattivo”, sia dall’“irresponsabile tecnolatra che giudica buono il nuovo mezzo per il semplice fatto che è e prospera”.
    Sulla base dell’idea per cui un qualsiasi mezzo della tecnica non è intrinsecamente intriso di ideologia (buona o cattiva), ma è in sé neutrale e può essere piegato a usi e scopi scelti dagli uomini di governo sulla base di programmi ideologici ben precisi e chiaramente esibiti (che investono anche la cultura e la pedagogia), Eco difende un punto di vista ispirato a “una forma di responsabile dirigismo culturale”, volto a fare della televisione un veicolo di “democratizzazione e diffusione della cultura”:
    Le conclusioni cui Eco perveniva all’inizio degli anni Sessanta – quando la televisione in Italia era ancora agli esordi e non esercitava quella pressione così massiccia, babelica e minacciosa che avrebbe esercitato in seguito – sono dunque improntate a un cauto ottimismo, non disgiunto da una piena consapevolezza dei pericolosi limiti strutturali che ineriscono alla televisione in quanto mero strumento di comunicazione: «Le indagini degli psicologi e dei sociologi ci hanno mostrato le forze immense che ci troviamo a dover addomesticare, pena la distruzione della nostra cultura; la TV ci è apparsa qualcosa come l’energia nucleare; e come l’energia nucleare può essere finalizzata solo sulla base di chiare decisioni culturali e morali» (sembrano parole scritte oggi per internet).
    Tutto questo, per chiudere, dovrebbe bastare per comprendere quanto vivo sia ancora oggi l’avvertimento lanciato da Eco quasi sessant’anni anni fa, e quanto valida sia ancora la sua proposta di un “cauto dirigismo culturale” ispirata dalla consapevolezza della enorme responsabilità politica e pedagogica di cui è investito tanto chi amministra quanto chi fa la televisione.

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