Ventesimo capitolo – Attentato in Vaticano

 
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“E’ morto”, gridò un carabiniere.

I soccorsi arrivarono celeri a piazza Colonna.

Cinque autovetture della polizia di stato erano saltate in aria con le ultime due autobombe dei kamikaze mentre sui luoghi dell’attentato c’erano decine e decine di vittime, alcune delle quali ancora agonizzanti.

Le ambulanze, le sirene dei vigili del fuoco e delle forze di polizia ruppero il silenzio sinistro che era calato nel piazzale antistante la sede del governo ed iniziarono ad apprestare i primi soccorsi ai feriti ed alle persone, che colte dal panico s’erano rifugiate dentro gli edifici vicini.

Il presidente del consiglio era  uscito indenne dall’attentato grazie al sacrificio dell’avvocato Berti, il quale intuendo l’avvicinarsi del pericolo, istintivamente lo aveva portato in salvo dentro le mura di palazzo Chigi.

E’ morto l’avvocato Berti”, gridò commosso e pieno di rabbia un usciere addetto alla sicurezza dell’edificio.

“No; è vivo,  sano e vegeto”, rispose il collega dai riflessi più svegli, il quale si era potato vicino a Fabrizio per verificarne le condizioni.

Il presidente e l’avvocato, subito dopo la tragedia,  furono soccorsi e trasportati in barella all’interno dei saloni dell’edificio, dove in un’improvvisata infermeria furono anche velocemente medicati.

“Per Dio. Mi sembra  di essere stato investito da uno tsunami”, pronunciò Fabrizio a labbra strette e con gli occhi socchiusi.

Le  sue condizioni erano malconce.

I vestiti strappati, bruciacchiati in più parti, però fortunatamente sul corpo aveva solo delle lievissime ustioni ed  alcune piccole escoriazioni.

In infermeria, un minuto dopo, il legale riprese  piena conoscenza, e  provò la fredda sensazione di avere fatto un lungo viaggio verso l’inferno, sentendosi dolorante come se fosse finito sotto il tram, felice però di essere rimasto miracolosamente illeso, come se dall’Ades fosse stato rimandato indietro.

“Dov’è il presidente”?

Chiese del premier, il quale gli era vicino, anche lui vivo e vegeto, pronto a porgergli in avanti un bicchiere d’acqua, ringraziandolo di avergli salvato la vita.

“Grazie, Fabrizio”, gli disse commosso.

La vista dell’avvocato era ancora offuscata, come se avesse davanti una coltre di nebbia che si stava dipanando; riuscì a mala pena a vedere  il braccio disteso del premier e sentirne la voce amica che lo invitò a bere.

Fabrizio bevve il bicchiere d’acqua e capì che nonostante la gravità dell’attentato i terroristi avevano fallito nell’obiettivo di eliminare il presidente del consiglio.

Subito si alzò dal lettino dell’infermeria e tentò di camminare, ma le forze non lo sorressero, sentendo un enorme peso sulla schiena e nelle spalle, colpite poco prima dall’urto d’aria incandescente generatosi con la violenza dall’esplosione del tritolo trasportato dalle due autovetture saltate in aria.

Lentamente  riuscì a muovere i primi passi nella stanza ed a vedere le immagini più nitide, fino a distinguere perfettamente prima il volto, dopo i lineamenti del presidente, al quale domandò se la situazione fosse sotto controllo.

Il premier rispose di essere scosso.

Non riusciva a capacitarsi di quanta crudeltà fossero stati animati i terroristi, pronti ad immolare la loro vita, nonostante si trovassero  a migliaia di chilometri dalla loro patria, ma quello non era il momento per i piagnistei.

I danni apparvero evidenti, c’erano stati una dozzina di morti, le bandiere di rappresentanza penzolavano spezzate e la facciata centrale  del palazzo del governo, con i suoi fregi e le decorazioni, era andata parzialmente distrutta.

“Presto; vieni Fabrizio. Il male è ancora in agguato”

Preoccupato, invitò Fabrizio a seguirlo nel suo studio, da dove poter seguire un’emergenza forse più eclatante: quella del dirottamento dell’aeromobile sulla linea  di volo Milano Linate verso Roma.

Il comandante dell’aeromobile Boeing  747 non rispondeva ai contatti e si ventilava l’incubo che sia l’aeroplano che il suo equipaggio fossero nelle mani dei terroristi.

Il premier osservò che l’ordine di evacuazione dello stato di Città del Vaticano e del Santo Padre era stato dato, ma l’aereo sorvolava in quel momento il territorio di Roma.

Si temette il peggio.

Alle dieci e  tredici, quindici minuti prima dell’attentato a palazzo Chigi, i sei terroristi islamici s’erano armati di affilate lame, estratte da un bagaglio a mano posto sulla cappelliera,  avevano immobilizzato un assistente di volo e dopo averlo condotto nel camerino di coda lo avevano sgozzato, senza alcuna pietà; poi, le due giovani hostess erano state prese prigioniere, una delle quali  rinchiusa nel camerino, mentre l’altra, senza che gli altri passeggeri si accorgessero degli strani movimenti, fu condotta da tre jadisti islamici vicino alla cabina del comandante, che al momento era chiusa a chiave.

La giovane hostess era stata ammonita  da Muhammad che lei non correva alcun pericolo di vita, che stavano per dirottare l’aereo su un altro scalo aeroportuale italiano e la loro era un’azione politica dimostrativa in favore dei fratelli musulmani e della Palestina, ma ogni sua mossa di ribellione sarebbe stata repressa nel sangue; infine, le fu intimato di rassicurare il comandante che tutto era sotto controllo e di chiedergli, con una scusa,  l’apertura blindata della cabina di pilotaggio.

“Apra, comandante”

La hostess, inibita dalla paura, disse al secondo pilota che la collega era stata colta da un forte malore, uno dei passeggeri era un medico e consigliava di informare dell’emergenza la torre di controllo capitolina; erra necessario far giungere urgentemente nella pista di atterraggio dell’aeroporto di Roma Fiumicino un’ambulanza per il successivo trasporto dell’hostess in ospedale: un dottore via radio avrebbe potuto dare i consigli di pronto soccorso.

Non appena il comandante ordinò al suo vice pilota di aprire la porta della cabina di pilotaggio, due dei tre islamici  entrarono veloci e la richiusero, sgozzando con colpi decisi e chirurgici le gole dei due piloti dell’aviazione civile che nemmeno ebbero il tempo di sospettare del pericolo o  di alzarsi dalle poltrone di guida, mettendosi poi al comando dell’aeromobile, aumentando la velocità di crociera.

“Allhà akbar”, gridò un fondamentalista islamico alla guida del potente Boeing. 

La crisi fu evidente; l’aereo già sorvolava Roma e tre caccia dell’aeronautica militare italiana giunsero a intercettarlo, affiancandosi uno a destra, uno a sinistra e l’altro sorvolandolo a una maggiore quota, mantenendosi distante e in sicurezza.

Dall’aereo civile in mano ai terroristi partì un messaggio via radio; il giovane capo della spedizione di morte riferì alla torre di controllo dell’aeroporto di Roma Fiumicino che l’aereo veniva dirottato su Napoli, o forse su un altro aeroporto del meridione, e diffidava il premier italiano di annunciare al mondo intero l’immediato ritiro delle sue truppe dalla Persia, diversamente ogni cinque minuti un passeggero sarebbe stato sgozzato come un olocausto.

Fabrizio osservò al presidente che la minaccia era un diversivo: i terroristi s’erano visti scoperti dalle autorità italiane, ora  cercavano di guadagnare il tempo per sorvolare il Vaticano, portando a termine la missione  di morte.

Disse di far presto.

“L’unica strada  percorribile è l’abbattimento dell’aereo”, sentenziò il legale.

Il presidente sbiancò, e restò sgomento, sentendosi inibito nei pensieri tristi e nei movimenti; c’erano più di duecento persone innocenti a bordo e avrebbe fatto ogni cosa pur di salvarli.

“Per Dio non posso farlo” , gridò impotente.

“Occorre trovare una soluzione”.

Ordinò ai caccia militari di costringere a deviare coattivamente la navigazione dell’aereo dirottato,  ma nonostante i tentativi  di inversione di rotta, l’aeromobile civile era incurante di entrare in collisione con uno dei tre caccia militari, e seguì la sua navigazione sul piccolo stato.

I due terroristi alla guida dell’aeromobile erano degli esperti piloti: un tempo ufficiali dell’aviazione reale saudita, avevano disertato e dopo l’invasione americana dell’Iraq si erano arruolati nelle fila di Al Qaida, abbracciando la fede dei fondamentalisti islamici, secondo i quali il suolo sacro dei musulmani non poteva essere invaso dagli infedeli.

L’aereo era già nello spazio aereo della città di Roma, e si avvicinò a quello di Città del Vaticano.

Il pericolo era imminente, reale.

Un generale capo di stato maggiore dell’aviazione militare, presente della sala dell’unità di crisi, gridò al presidente che mancavano meno di venti secondi dall’invasione di quello spazio.

“Lo faccia abbattere, presidente”, aggiunge il militare.

Intanto, l’aeroplano in mano ai dirottatori iniziò ad abbassare pericolosamente la quota di navigazione; le intenzioni dei terroristi furono evidenti e concordavano con quanto affermato dall’avvocato Berti:  l’obiettivo era schiantarsi sulla basilica di san Pietro ed eliminare il pontefice.      

“Signor Presidente”, deve decidersi presto, osservò  il generale capo di stato maggiore.

“Mancano meno di dieci secondi dall’impatto con il cupolone della basilica di san Pietro”, comunicò inerme.

“Signor presidente, mancano solo cinque secondi; dopo sarà troppo tardi”, precisò l’avvocato Berti, rivolgendosi al Premier,  sollecitandolo ad un braccio, quasi a scuoterlo per prendere l’immediata decisione.

“Lo abbatta”, replicò perentorio e deciso Fabrizio.

“Abbattete l’aereo”, ordinò il primo ministro con  il cuore in gola e le lacrime agli occhi.

Un missile  aria-aria si staccò dal caccia militare di coda e si diresse verso l’aereo civile, il quale virò a sinistra, cercando di lanciarsi in picchiata sul cupolone e sugli obiettivi designati, rimanendo però colpito ad un’ala dal proiettile di morte, precipitando dentro le mura  di città del Vaticano.

Uno, due secondi e un boato immenso si sentì con lo schianto dell’aeroplano sul suolo dei giardini della santa sede, sollevando un polverone bianco ed immenso, terrificante. 

I pezzi dei relitti schizzarono a centinaia e centinaia di metri dal punto d’urto, la calotta centrale dell’aeromobile era ancora in fiamme, che già dopo pochi secondi arrivarono sul luogo del sinistro i primi soccorsi delle squadre dei vigili del fuoco, mentre dalle loro autopompe si levarono potenti gettiti di acqua che spensero gli improvvisi incendi che si estesero e spensero nella facciata di un edificio.

Ovunque c’erano resti umani e oggetti personali dei centonovantasette passeggeri, dei membri dell’equipaggio e dei terroristi islamici, ancora non identificati.

Immediatamente si iniziò a lavorare,  incessanti alla ricerca disperata dei sopravvissuti; purtroppo, alcun segno di vita provenne dai corpi umani dilaniati e straziati dallo schianto, dai pezzi di rottami ingoiati dalle fiamme.

I soccorritori lavorarono alacremente, ma sotto le macerie un solo lamento o segno di vita non fu notato.

Arrivarono sui luoghi dell’attentato anche le troupe televisive italiane ed estere, avvisati dal ministero dell’interno, e tutte le trasmissioni radio televisive via etere o via satellite furono interrotte per dare in diretta al mondo intero le notizie dell’immane tragedia dell’aereo dirottato niente meno che sulla basilica di san Pietro.

I primi minuti le notizie furono incontrollabili; tra i network si  sparse la voce che il dirottamento era stato consumato sopra gli appartamenti ed il museo vaticano e che tra le vittime vi fossero prelati in porpora rossa, e forse il papa.

Non appena però furono mandate in onda le prime immagini in diretta che ritrassero integra la basilica di san Pietro con i suoi edifici, la cupola e il colonnato del Bernini,  gli appartamenti vaticani ed  il suo museo con la cappella Sistina, nelle case dei telespettatori occidentali si sollevarono le grida di gioia e di ringraziamento alla Divina Provvidenza: il Santo Padre era salvo e la chiesa di Roma non era stata intaccata dall’immane tragedia che dall’alto si era abbattuta nei suoi giardini, i quali si presentarono come un cumulo di rovine.

“Per carità di Dio, il peggio è passato”, disse quasi sollevato il presidente, al comando nella stanza dei bottoni.

L’avvocato Berti e il premier assistettero ai soccorsi in diretta sulla televisione di Stato, impartendo ordini dalla sala ovale di palazzo Chigi adibita ad unità di crisi, quando la prefettura di Roma trasmise il primo bollettino dei danni e delle vittime dell’attentato.

Tra le vittime c’erano anche alcuni civili, addetti ai lavori nei giardini vaticani, ma nessun ulteriore danno ne era derivato per la chiesa cattolica ed il sommo pontefice.

Disperata  Olga  compose il numero del telefonino di Fabrizio e lo chiamò sul suo cellulare, felice che finalmente le rispondesse, e non appena il giovane la informò di essere sano e salvo all’interno di palazzo Chigi e di trovarsi vicino al premier,  la ragazza ringraziò il cielo.

Gli disse anche di stare fermo lì, che lo avrebbe raggiunto presto, ammonendolo di non allontanarsi perché lei era in pena ed aveva temuto per la vita del suo uomo.

I principali network avevano dato poco prima la notizia del duplice attentato contro la sede del governo ed il Vaticano, e una voce incontrollabile era circolata anche sull’avvocato Berti che,  lanciatosi sul presidente per salvargli la vita, era rimasto gravemente ferito.

Fabrizio rassicurò la donna ad essere tranquilla.

Sarcastico rispose  di avere solo qualche graffio e la pelle dura a morire.

Poi, ritrovando il sorriso, la invitò a starsene a casa, poiché lui l’avrebbe raggiunta al più presto.

“Grazie Fabrizio, per avermi salvato la vita”, disse il Premier, mettendo la sua mano destra sulla spalla del legale, ringraziandolo con un largo sorriso.

Entrambi sorrisero; poi, si portarono vicino lo schermo di un televisore,  e stanchi si sedettero sul tavolo ovale, ove iniziarono ad arrivare i bollettini dei ministeri, dei servizi di intelligence delle forze armate e della sicurezza nazionale.

Gli uomini del presidente ed il presidente stesso, dall’unità di crisi fremevano per le sorti della nazione.

“Hurrà”

Un grido di gioia e di hurrà si levarono nella stanza quando vi entrò di corsa un tenente colonnello dei carabinieri addetto all’ufficio del coordinamento delle Forze Armate,  ad annunciare che in un hotel vicino la stazione ferroviaria centrale della città di Roma  era stato fermato un uomo sospetto che, ad un controllo successivo, era  stato identificato niente meno che nel capo della spedizione di morte, Marwan Al Said.

“L’avete preso?” sbraitò il premier con l’aria soddisfatta, scaricando lo stress e le emozioni, mostrandosi finalmente sorridente.

Il successo fu straordinario.

Pur se le immagini che provenivano dalla città del Vaticano non davano scampo a nessun sopravvissuto tra i passeggeri ed in Europa Al Qaida aveva colpito anche l’Italia ed il papa, i suoi uomini avevano reagito da eroi, scacciando il pericolo e catturando vivo il capo dei terroristi islamici. 

Tra gli uomini dello staff del presidente, alcuni piansero per la tensione, in lacrime per la perdita degli amici e dei cittadini caduti nell’adempimento del proprio dovere durante l’attacco a palazzo Chigi.

Le ferite non erano facilmente guaribili.

Fabrizio  sbottò “porca miseria”.

Si sentì scosso, vedendo nelle sua mente, in un attimo e alla velocità della luce, le vittime degli attentati, una a una, dispiacendosi per gli innocenti, e quasi per un’indecifrabile osmosi, lesse  nei suoi pensieri anche  quelli di Lorella, di Olga, di Safyra, che nell’attesa di quei terribili attimi e nelle ultime ore, avevano subìto la paura di perdere la dignità o i loro cari.

Il cordoglio e la sua pietà  però andarono alle vittime innocenti, uomini, donne e bambini, e su Safyra la quale, pur non essendo riuscita a salvare il suo unico e giovane figlio, l’amato Muhammad, perito nello schianto dell’aereo sul suolo Vaticano insieme a tutti i  passeggeri, aveva salvato altre vite umane e la chiesa cattolica da un’immane perdita.

“Vado a casa”, comunicò pietrificato.

Gli parve che la cosa più giusta da fare in quel momento di calma glaciale e spettrale fosse quella di lasciare il palazzo del governo dove oramai la sua presenza era superflua, e ritornare dalla sua  donna che lo aspettava a casa, a braccia aperte, sarebbe stata la sua panacea.

Si incamminò a piedi, percorrendo le stradine della città, lungo via del corso, con il cuore gonfio e contrito, diretto verso il suo attico di piazza di Spagna, felice che lì avrebbe trovato la sua donna ad aspettarlo.

Però, incamminandosi, anche la figura e il pensiero dello sguardo di Lorella non lo abbandonarono; in fondo avevano vissuto insieme due lunghi, intensi anni e dentro il  suo cuore ancora sentiva l’eco della loro storia d’amore.

Gli dispiacque non averla vicina.

L’aveva rivista, ne aveva ascoltato nuovamente la voce solidale, amica,  ma accidenti i suoi sentimenti erano cambiati ed adesso amava un’altra donna.

Lei, la donna del suo passato, era sola.

Decise di starle vicino, ad ogni costo.

Prese il telefonino e le telefonò.

“Ciao, Lorella”.

La giudice, non appena ascoltò la sua voce, pianse di gioia e ringraziò Dio che lui fosse sano e salvo.

“Grazie per avermi telefonato; stavo impazzendo”, gli confessò.

Il giovane legale  raccontò l’accaduto, sicuro del suo istinto che da tempo gli obiettivi dei terroristi erano  la santa chiesa ed il pontefice massimo, mentre Marwan Al Said aveva puntato ad eliminare il premier in persona.

Con il sorriso orgoglioso  le disse pure di sentirsi grato  per essere riuscito a salvare la vita del presidente, facendogli da scudo con il suo corpo.

Poi, avere scoperto di avere la schiena e la pellaccia dura, era stata anche per lui una sorpresa, le disse ironico.

Aggiunse che lei, purtroppo, aveva ragione a considerarsi sfortunata, ma la cosa migliore degli ultimi giorni era quella di essere riuscita ad aprire gli occhi sull’immagine vera e triste del procuratore capo del tribunale di Roma che le si era dichiarato un amico ed invece ne era stato il carnefice, un despota apparentemente disponibile a starle vicino ma pronto ad approfittarne quando l’amica aveva abbassato le sue difese.

“Lo so.

E’ la vita.

E’ così”, rispose lapidaria la giudice, seduta nella sua scrivania con l’orecchio vicino al telefonino e il suo sguardo lontano, oltre il tempo.

“Si è comportato in modo alquanto vergognoso, ma non è finita qui. 

Credo che presto avrà bisogno di un buon avvocato”, aggiunse sibillina, vaticinando un futuro terribile per il procuratore.

“Non deve illudersi che io quella sera non abbia reagito; non potevo.

Ha abusato di me e la pagherà”, replicò al telefonino, decisa e furente.

“Conosco il mio lavoro”, obiettò.

“Gli illeciti  vanno perseguiti penalmente, anche contro le toghe sporche”, continuò a dire con la rabbia in corpo, tirata fuori dalla donna solo nei casi da lei considerati estremi, puntualizzando che quel caso lo era.

Fabrizio intuì che qualcosa di nuovo, forse di terribile, fosse in vista e non avrebbe voluto essere nei panni del procuratore che doveva affrontare l’ira e le ragioni della donna.

Le consigliò anche di essere accorta e prudente, ricordandole che a qualsiasi ora, in lui trovava  un vero amico.

Aggiunse che la vita riserva sempre delle sorprese.

L’avvocato si disse anche certo di scoprire ben presto l’enigma della sorte di Dario, pur se gli dispiacque di non conoscere il futuro della loro amicizia; la invitò poi ad essere più calma e la salutò con un bacio, chiudendo la piacevole conversazione dopo aver ricevuto un “ciao Fabrizio” e averle mandato “un bacio” ricambiato.

L’uomo, lontano dal pericolo scampato, continuò a camminare lungo le stradine e i monumenti del centro storico, nella città dei suoi sogni, attraversando piazza dei Santi Apostoli assorto nei pensieri e solidale al suo antico amore, felice però che oramai mancavano pochi minuti dall’abbraccio del suo tesoro.

Olga lo era  e lui lo sapeva. 

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