Gela. All’alba del 14 agosto 1861, le truppe del generale Negri ricevettero l’ordine di entrare nel comune di Pontelandolfo per incendiare la città e fucilare gli abitanti, risparmiando solo i bambini, le donne e gli infermi. Il bersagliere Carlo Margolfo descrisse nel suo diario come le truppe si posizionarono sui monti circostanti. Una cinquantina di briganti cercarono di creare un diversivo per allontanare i militari dal paese. Nel dispaccio del capitano Cecconi di San Lupo, si riferiva a 21 cadaveri ancora insepolti, il che permise la raccolta di armi e munizioni. I soldati avevano l’ordine di attaccare il paese, snidare i briganti e incendiare la cittadella.
Il bersagliere Margolfo racconta che iniziarono col fucilare preti e uomini, mentre i soldati saccheggiavano la città. Dopo il saccheggio, iniziarono a bruciare case, stalle e paglia, mentre l’odore di bruciato riempiva l’aria. Le strade erano piene di cadaveri ancora caldi, appena fucilati o infilzati con le baionette. Nell’aria si sentivano le grida e le urla di dolore delle donne, delle madri e delle figlie che pregavano e piangevano, rimaste ormai sole. Voci sembravano provenire dall’oltretomba e molte persone agitavano fazzoletti bianchi in segno di pace.
In un primo momento, la legione ungherese si distinse per la sua destrezza. I soldati entrarono nella casa di Giuseppe Santopietro, che teneva abbracciato il figlioletto, e li uccisero entrambi a colpi di baionetta. A casa di Raffaele Barbieri gli strapparono la lingua, e l’uomo soffocò nel suo sangue. Nella casa di Maria Izzo, lei fu legata a un albero e violentata ripetutamente dai soldati. Antonio Carlo Iese, nascosto in una cassapanca, morì nell’incendio della casa. Giuseppe Ciaburri e sua moglie furono sorpresi a letto; lei fu stuprata ripetutamente davanti al marito, e morirono entrambi per le inaudite violenze. I fratelli Lo Russo, ricchi proprietari terrieri, furono ammazzati a colpi di fucile dopo aver salutato i piemontesi dalle finestre. Le spose e le vecchie madri scesero in strada e si inginocchiarono ai piedi del maggiore, supplicando di risparmiare i bambini, ma niente riuscì a muovere a pietà dei soldati.
I figli di Nicola Rinaldi, Antonio e Tommaso, uno avvocato e l’altro negoziante, furono messi al muro, derubati del denaro e fucilati. Il deputato Giuseppe Ferrara riferì questi avvenimenti alla Camera il 2 dicembre 1861. I massacri avvenivano in risposta all’uccisione di 37 piemontesi, e il generale Cialdini, sconvolto, incaricò Maurizio De Sonnaz di dirigere le operazioni di ritorsione.
Cialdini applicava una regola simile a quella dei tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, che stabiliva che per ogni tedesco ucciso dai partigiani, dieci italiani dovevano essere fucilati. Cialdini, però, considerava ogni piemontese ucciso equivalente a una piccola città di cinquemila persone, e giustificava tali azioni come necessarie per liberare il Sud dai briganti, sostenuto da Cavour, Vittorio Emanuele II e professori universitari prezzolati impegnati a unificare l’Italia a spese del Meridione.
A Benevento, le truppe erano in attesa di ordini quando il generale Cialdini ordinò al colonnello Negri di marciare su Pontelandolfo e dare una severa lezione ai briganti del paese e successivamente visitare Cerreto. Al comando di Negri e Melegari c’erano complessivamente novecento uomini. Melegari, con quattrocento soldati, giunse a Solopaca e, il 13 agosto a mezzogiorno, raggiunse Guardia e poi San Lupo, dove chiese rinforzi e fece riposare la truppa. Il diciottesimo battaglione, guidato da Tommaso Lucente, un liberale del paese, si diresse verso Casalduni, accompagnato dal ricco possidente Sepino Achille Jacobelli. La prima persona ad essere bruciata fu il sindaco, ritenuto un fiancheggiatore dei briganti, seguito da Lorenzo D’Urso, che fu ucciso con una scarica di fucile. Don Pasquale Erosino fu freddato sulla soglia della sua chiesa.
Per valutare la serietà e l’attendibilità di questo ennesimo, sconclusionato e sgrammaticato, intervento di Maganuco è sufficiente notare che il Cavour, che in agosto 1861 avrebbe sostenuto Cialdini, era morto il 6 giugno precedente, che i morti a Pontelandolfo il 14 agosto 1861 furono tredici; che Maria Izzo aveva 94 anni; che non si capisce quali professori universitari avrebbero sostenuto Cialdini nel 1861; che l’arciprete di Pontelandolfo si chiamava Michelangelo Caterini e morì alcuni anni dopo; don Pasquale Erosino è un nome completamente inventato come la sua uccisione. Per il resto non vale la pena continuare. Continuo a chiedermi perchè un giornale ben fatto come il QdG pubblichi questa roba.