“Io gelese contagiato e ricoverato nel Nord Italia, vi dico di essere prudenti”

 
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Gela. Sono monitorate costantemente dai sanitari di un ospedale del Nord Italia, le condizioni di salute di un gelese di 57 anni, da poco più di tre mesi in servizio nel campo industriale e contagiato dal Coronavirus. E’ partito da Gela con tanta voglia di “spaccare il mondo”. “Aspettavo la telefonata di lavoro da parecchio tempo – ci riferisce – e quando l’ho ricevuta, non potevo crederci. Un sogno. Per me e i miei cari. Adesso sto vivendo un incubo!” Il nostro conterraneo non riesce fin da subito a trattenere le lacrime. Singhiozza e piange al telefono. Cerco di tranquillizzarlo, ma il mio intento è inutile. “Ero a casa, dopo una giornata intensa di lavoro. Ero felice, guardavo la tv, quando ad un tratto ho cominciato a tossire. Ho pensato: prendo una tachipirina e vado a letto. Sono state ore d’inferno. Dopo qualche ora le mie condizioni sono peggiorate: febbre alta, sintomi di affaticamento… Ho chiamato l’ambulanza e subito di corsa in ospedale. Disteso sulla barella, tremavo non solo di freddo ma anche di paura. Ricordo la voce dell’infermiere che mi ha assistito. Una voce candida, rassicurante, quasi paterna. E’ proprio in quell’occasione che ho pensato a mio padre che non c’è più da tempo. E a lui ho chiesto di aiutarmi e, da lassù, di stringermi forte la mano e di non abbandonarmi mai…” I ruoli e le emozioni si invertono: adesso è lui che cerca di tranquillizzare chi scrive.

Il suo, come il mio, è un intento che fallisce fin da subito. Ci prendiamo un attimo di pausa. Tiriamo entrambi il fiato. “Dopo essere stato sottoposto al tampone – riferisce – ho atteso di conoscere l’esito. Già lo sguardo del medico in ospedale, diceva tutto: positivo, purtroppo. Ho cominciato ad urlare, ma attorno a me sentivo il vuoto. Dopo qualche istante, ho percepito la voce di mia madre. Mi diceva di stare sereno. Ma era solo una percezione. Mia madre è stata avvisata poco dopo. Ma io la vedevo attorno a me, il cuore di una mamma è ovunque. E’ il tuo angelo custode…” 

Chiedo se si è mai chiesto di come ha contratto il virus.

“Ho provato – dice – di andare indietro nel tempo, focalizzando tutti i miei spostamenti. Ho riferito anche di alcuni colleghi di lavoro. Fortunatamente loro stanno bene. L’ho contratto senza saperlo”.

Adesso come sta?

“Comincio ad assimilare quanto mi è accaduto con calma. Con razionalità sto ricostruendo il mio trauma e tutti i vari passaggi. L’ho giurato a papà, nei miei sogni continui: sarò forte e vincerò questa battaglia con tutto me stesso!”

Cosa farà quando tutto sarà finito per il meglio?

“Voglio correre su un prato verde e riabbracciare il mondo. La vita è straordinaria e bisogna viverla fino in fondo. Cito la poetessa Maya Angelou: la vita non si misura attraverso il numero di respiri che facciamo, ma attraverso i momenti che ci lasciano senza respiro”.

Il tempo della nostra telefonata è terminato. Lasciamo il nostro amico al suo riposo e lo ringraziamo per avere accettato di raccontarci quanto accaduto. Ma prima di congedarci, ha due pensieri da rivolgere. Il primo è rivolto a tutti noi. “Non facciamoci del male, rispettiamo quanto disposto dal governo. Un pò meno di libertà per alcune settimane equivale alla massima sicurezza”. L’altro è dedicato all’intero sistema sanitario. “Persone prima che dottori. Hanno un cuore enorme. Ti stanno sempre vicino, si spendono per noi tutti. E anche nei momenti in cui il tempo si ferma in questi posti in cui sei isolato, loro ci sono sempre”. Sentiamo uno strano rumore dall’altra parte del telefono. “E’ il Rosario che tengo stretto tra le mani. Non mi ha mai abbandonato e mai lo farà. Cosi come fa mio padre da lassù…”.

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