La riforma scolastica in 56 righe secondo i fuori corso Di Maio e Salvini

 
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Gela. Nel cosiddetto “Contratto per il governo del cambiamento”, sottoscritto, dopo estenuanti trattative, tra il “signor” Luigi Di Maio, Capo politico del MoVimento 5 Stelle, e il “signor” Matteo Salvini, Segretario Federale della Lega (così si legge a pagina 3), il paragrafo 22 è dedicato alla scuola, mentre il trentesimo e ultimo è dedicato a “Università e ricerca”. Vorrei qui soffermarmi sul ventiduesimo, perché mi pare emblematico di un intero stile politico.
Una scuola in 56 righe. Il paragrafo copre una pagina e mezza delle 52 totali nette del “Contratto” ed è costituito in tutto da 56 righe. Quale idea di scuola avrà dunque il governo che sta per insediarsi sulla base di un programma messo nero su bianco in forma contrattuale dai due leader politici? Una lettura attenta del breve testo fa ben sperare per il futuro immediato del sistema scolastico italiano, perché in esso, per fortuna, come c’era da aspettarsi dai due contraenti, noti soprattutto per essere dei fuori corso culturalmente assai sprovveduti, non è espressa alcuna idea di scuola.
Oltre la “Buona scuola”. L’unica idea che emerge, non propriamente di tipo pedagogico, è quella di “superare” (è questo il verbo usato) le riforme degli ultimi anni, e in particolare quella introdotta dalla “cosiddetta “Buona scuola” del governo Renzi, ovvero dalla legge 107/2015 (l’espressione “Buona scuola” compare tre volte e tutte e tre le volte è preceduta da “c. d.”). In sostanza, tutta la politica scolastica del futuro governo, stando al “Contratto”, si baserà sul superamento di alcuni punti precisi, e particolarmente controversi, della legge 107.
I contenuti del testo. Il testo esordisce deplorando “le politiche dei tagli lineari e del risparmio” che hanno ispirato le recenti riforme e costretto la scuola a vivere “momenti di grave difficoltà”. Per uscire da un tale quadro di crisi non meglio specificata, la soluzione consiste naturalmente in un imperativo categorico geniale, cui nessuno aveva mai pensato prima: “l’istruzione deve tornare al centro del nostro sistema Paese”. È ben noto, infatti, che tutti gli ultimi governi italiani hanno esplicitamente collocato l’istruzione ai margini del “sistema Paese”, e ogni ministro dell’istruzione, invece di elogiare la scuola, ha lanciato anatemi contro il vizio tutto italiano dell’istruzione. Dopo un po’ di altre amenità generiche sul valore dell’istruzione per i giovani e sull’importanza dei docenti, il primo capoverso si chiude con le misure concrete che il futuro governo dovrà prendere per il “cambio di rotta” rispetto alle riforme precedenti, tutte “insufficienti e spesso inadeguate. Bisognerà intervenire, in particolare, «sul fenomeno delle cd. (sic!) “classi pollaio”, dell’edilizia scolastica, delle graduatorie e titoli per l’insegnamento. Particolare attenzione dovrà essere posta alla questione dei diplomati magistrali e, in generale, al problema del precariato nella scuola dell’infanzia e nella primaria». Si notino, in questo passaggio, le confusioni sia di forma che di contenuto. Per quanto riguarda la prima, l’estensore considera “fenomeni”, se non altro sintatticamente, cose diversissime come le classi pollaio e l’edilizia scolastica, le graduatorie e i titoli. Per quanto riguarda il contenuto, poi, è quasi divertente come al “fenomeno” dell’edilizia scolastica, per esempio, venga contrapposta come particolarmente rilevante la questione dei diplomati magistrali. Un guazzabuglio concettuale e “ontologico” davvero notevole, come si vede.

Insegnanti nella morsa del federalismo. Il secondo capoverso, però, contiene, annegata tra banalità di ogni sorta sul problema cronico del precariato, sulla necessità di formare e reclutare adeguatamente gli insegnanti e sull’obiettivo di garantire la famosa (e fumosa) continuità didattica, la vera chicca di tutto il testo, cioè il sogno tipicamente leghista di chiudere agli insegnanti del sud l’accesso alle scuole del nord: «saranno introdotti nuovi strumenti che tengano conto del legame dei docenti con il loro territorio». Come si vede, con la scusa di affrontare “all’origine” il problema dei trasferimenti e cavalcando il malcontento generato dal recente piano delle assunzioni a tempo indeterminato e dal suo famigerato algoritmo che ha spostato un po’ a caso molti docenti da sud a nord, si mira a realizzare il vecchio disegno della Lega di bloccare il flusso di insegnanti del sud che trovano al nord migliori opportunità nelle graduatorie.
Chiamata diretta: fallimento della legge 107. Il testo prosegue dichiarando che è necessario “superare” uno degli elementi più controversi della “Buona scuola”, vale a dire la cosiddetta “chiamata diretta” dei docenti da parte dei dirigenti scolastici. Questo strumento, classificato come uno dei “fallimenti” della legge 107, viene definito senza mezzi termini, e senza ulteriore giustificazione, “tanto inutile quanto dannoso”. Come vedremo più avanti, una presentazione così palesemente distorta di un dispositivo che non è a tutt’oggi nemmeno entrato pienamente in funzione e i cui eventuali effetti negativi, di conseguenza, non possono essere ancora misurati, ha una motivazione tutta retorica e per nulla “tecnica”.
Super Docenti per alunni disabili. A questo punto si passa ex abrupto al tema dell’inclusione degli alunni, con particolare riguardo a quelli che presentano “disabilità più o meno gravi” e “difficoltà di apprendimento”, ai quali sarà necessario garantire “lo stesso insegnante per l’intero ciclo”. Anche qui non è chiaro su quali basi psico-pedagogiche venga annunciata una misura del genere. Come sa infatti chiunque lavori nel mondo della scuola, il problema principale non è quello di fornire a un alunno con disabilità uno stesso insegnante per l’intero ciclo, ma quello di garantirgli, nel corso di un anno scolastico, una copertura di ore commisurata in maniera adeguata al tipo di disabilità certificata. Ben due capoversi, così, vengono sprecati per ricordarci che “la cultura è un mondo in continua evoluzione” e che quindi è necessario che studenti e insegnanti seguano il passo delle sue trasformazioni, come se fino ad ora la scuola si fosse mossa in direzione ostinata e contraria rispetto ai mutamenti del sapere. Non solo: con un linguaggio piuttosto pomposo ci viene promesso nientemeno che le scuole si doteranno di docenti in grado di lavorare con alunni con disabilità e difficoltà di apprendimento.
Quale alternanza scuola-lavoro. Dulcis in fundo, il testo punta il dito su un’altra componente controversa della “Buona scuola”: l’alternanza scuola-lavoro. In particolare si lamentano l’ampliamento considerevole delle ore obbligatorie e il fatto che tale strumento non sia sempre stato al servizio del suo compito intrinseco, che è quello di avvicinare gli alunni ad esperienze lavorative coerenti con il loro percorso di studi. Si badi bene: non c’è alcuna critica all’ASL in sé, che anzi viene considerata “un efficace strumento di formazione dello studente”. C’è piuttosto una critica alla cattiva gestione dello strumento, che l’ha reso inefficace e dannoso, ma non è precisato come si intenda migliorarne l’uso.

Un contratto populista. Come si vede, il “Contratto” non esibisce una visione generale della scuola, ma mira ad apportare dei miglioramenti alla “Buona scuola”. Quest’ultima, pur nascendo anch’essa sullo sfondo di una desolazione culturale totale dal punto di vista pedagogico, è tuttavia una riforma di sistema generale e piuttosto incisiva, sicché i suoi punti critici, se si dovessero rivelare fondate le preoccupazioni dei suoi detrattori, potrebbero avere degli effetti negativi di lunga durata. Ma come sono stati scelti dai signori Di Maio e Salvini i punti da migliorare? L’impressione è che, essendo gli estensori (e, per definizione, i loro partiti) totalmente privi di cultura pedagogica, abbiano navigato a vista, concentrandosi populisticamente sugli aspetti più controversi della “Buona scuola”. Insomma, è come se avessero misurato lo scontento degli insegnanti, così come emerge per esempio dai social media, e agito di conseguenza sugli elementi più “popolari”. Ecco perché questo breve testo non dovrebbe destare troppe preoccupazioni. La naturale resilienza del mondo della scuola potrebbe far sì che quest’ultima non si accorga nemmeno del passaggio del prossimo governo, a meno di clamorose sorprese. E già questa, forse, è una buona notizia.

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