“Non riscuoteva soldi per i clan”, assolto un ambulante: la Dda ha chiesto la condanna

 
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Gela. Assolto dalla pesante accusa di aver riscosso denaro per conto dei clan.

La Dda ha chiesto la condanna. Cadono le contestazioni mosse nei confronti dell’ambulante Gioacchino Areddia, ritenuto responsabile di almeno due estorsioni ai danni di commercianti locali. In base alla ricostruzione dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, avrebbe agito per conto dell’allora reggente di cosa nostra Angelo Cavaleri, oggi collaboratore di giustizia. Le indagini fecero emergere richieste di denaro fatte pervenire ai titolari di un negozio di articoli sportivi e a quelli di una rivendita di fiori. Per questa ragione, il pubblico ministero Luigi Leghissa ha chiesto la condanna a cinque anni e tre mesi di reclusione, escludendo comunque l’aggravante mafiosa. Insomma, l’ambulante avrebbe riscosso denaro ma senza far parte del clan. Il magistrato, nel corso della requisitoria, ha comunque sottolineato le tante difficoltà di raccogliere elementi utili dalle dichiarazioni rese dagli esercenti estorti. “A distanza di diversi anni – ha spiegato – molti continuano a temere gli esponenti mafiosi e, per certi aspetti, negano il fenomeno”.

“Non ha mai riscosso denaro per i clan”. La ricostruzione dell’accusa, però, è stata del tutto contestata dal difensore di fiducia dell’imputato, l’avvocato Salvo Macrì. Il legale ha preso soprattutto in considerazione le dichiarazioni rese in aula dal collaboratore di giustizia Emanuele Cascino, ad inizio 2000 ancora vicino a cosa nostra, prima di diventare un fedelissimo di Peppe Alferi. Lo stesso Cascino ha escluso che Gioacchino Areddia abbia mai riscosso il denaro delle estorsioni per conto del clan. “Aveva problemi di dipendenza da droga – ha detto il collaboratore – i reggenti di cosa nostra non si sarebbero mai affidati a lui per riscuotere la messa a posto”. La difesa, inoltre, ha sottolineato le contraddizioni emerse dalle dichiarazioni rese dallo stesso Angelo Cavaleri, comunque non certo della presenza dell’imputato al momento delle richieste di denaro. “Bisogna affermare la verità – ha detto il legale – Areddia e la sua famiglia hanno anche subito lutti a causa dei clan. Non ha mai riscosso denaro per le famiglie”. Peraltro, nel periodo finito al centro delle indagini, a cavallo tra il 1999 e il 2000, l’imputato era sottoposto agli arresti domiciliari. Così, è arrivato il verdetto assolutorio pronunciato dal presidente del collegio penale Veronica Vaccaro, affiancata da Marica Marino e Silvia Passanisi. Gli atti, invece, passano alla procura rispetto alle presunte dichiarazioni reticenti rese in aula da due esercenti estorti.

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