Omicidio Palmieri, Cafà mentì per coprire Scudera: condanna a tre anni

 
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Vincenzo Scudera è stato condannato in via definitiva per l'omicidio dell'ex moglie

Gela. Avrebbe tentato di coprire il bracciante Vincenzo Scudera, poi condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio della moglie, la giovane Rosaria Palmieri, i cui resti non vennero mai trovati. Il giudice Ersilia Guzzetta ha condannato a tre anni di reclusione Francesco Cafà. Venne convocato dagli investigatori, che cinque anni fa avevano già riaperto un caso coperto dal peso del tempo. Della sorte di Rosaria Palmieri non si seppe più nulla, da quando nel 1987 se ne persero le tracce. I giudici della Corte di Cassazione hanno confermato l’ergastolo al sessantenne Scudera, che intanto si era rifatto una vita nelle Marche. Cafà, difeso dall’avvocato Davide Anzalone, doveva rispondere di false informazioni al pubblico ministero. Nel corso di due interrogatori, almeno questo è emerso dall’istruttoria dibattimentale, avrebbe negato di essere a conoscenza di precisi particolari di quell’omicidio. In realtà, durante il giudizio a Scudera, così come riportato in sentenza, si seppe di interlocuzioni tra Cafà e lo stiddaro Calogero Riggio, avvenute in carcere. Lo stesso Riggio, poi diventato collaboratore di giustizia, spiegò che Cafà avrebbe saputo dell’omicidio commesso da Scudera e delle ragioni che lo condussero ad ammazzare la moglie. Gli investigatori sono giunti alla conclusione che la giovane venne eliminata, perché diventata un ostacolo ad un’altra relazione sentimentale che l’allora marito intratteneva. Un intreccio fatale per la giovane, poi uccisa. Il pm Gesualda Perspicace, a conclusione della sua requisitoria, ha chiesto la condanna a tre anni di reclusione. Per l’accusa, Cafà sapeva ma tentò di deviare le indagini. L’imputato e Scudera facevano parte del gruppo stiddaro e anche per questa ragione il rapporto tra i due si sarebbe consolidato. La difesa, invece, ha messo in forte dubbio l’esito degli interrogatori, poi finito tra le carte degli inquirenti.

Ha richiamato in aula la non punibilità. Cafà, secondo la sua versione, non poteva essere costretto a raccontare vicende capaci di far maturare una personale responsabilità penale, come ad esempio l’appartenenza alla stidda, che lo avrebbe accomunato a Scudera ma anche a Riggio. Il riesino, con le sue dichiarazioni da collaboratore, contribuì a fare più chiarezza sulla fine di Rosaria Palmieri. Il giudice ha accolto la ricostruzione di accusa, confermando quanto richiesto dal pm.

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