“Chieste forniture dopo blitz”, testimone: “Credito per arredi, abbiamo subito un incendio”

 
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Gela. I titolari del bar di via Romagnoli che denunciarono presunte pressioni estorsive avrebbero però continuato a chiedere le forniture di prodotti da colazione, anche dopo gli arresti dell’inchiesta “Stella cadente”, rivolgendosi all’attività di uno dei coinvolti. E’ durata alcune ore, questa mattina, l’udienza tenutasi davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore. Sono a giudizio diversi coinvolti nel blitz antimafia, ritenuti tutti vicini al gruppo stiddaro, capeggiato da Bruno Di Giacomo (condannato per questi fatti in primo e secondo grado). In aula, è stato sentito il proprietario del bar del centro storico che riforniva l’attività di via Romagnoli. Il figlio, Samuele Cammalleri (difeso dai legali Carmelo Tuccio e Flavio Sinatra), è accusato di aver imposto le forniture ai fratelli Famà, che avevano da poco avviato il “Caffè Milano”. “Anche il giorno dopo gli arresti – ha detto il padre di Cammalleri – mi venne chiesto perché non era stata fatta la fornitura al loro locale. Ripresi per circa sei giorni e poi la interruppi, perché non pagavano”. Per i pm della Dda d Caltanissetta, Cammalleri, approfittando della sua vicinanza a Di Giacomo, avrebbe preteso che le forniture di diverse attività commerciali avvenissero con i prodotti dell’attività di famiglia. In aula, oltre al padre, è stata sentita un’altra familiare. Entrambi hanno spiegato che il loro bar è attivo da quasi trent’anni e di aver sempre lavorato regolarmente. “Il costo della fornitura era di cinquanta centesimi al pezzo per genovesi e raviole – è stato riferito – furono i Famà, attraverso un conoscente in comune, a chiedere di avere le forniture e anzi spesso ne richiedevano anche di più”. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale, anche altri esercenti, già sentiti, hanno escluso di aver subito minacce o pretese per le forniture. “Nel nostro bar – hanno ancora riferito i testimoni – molto spesso si servivano esponenti delle forze dell’ordine”. La difesa ha posto, come già accaduto in altri frangenti, una questione sull’attendibilità dei fratelli Famà, che invece denunciarono minacce e pretese estorsive per le forniture. E’ stato chiesto anche di poter produrre un recente provvedimento, di affidamento ai servizi sociali, per una condanna subita da uno dei fratelli, in una vicenda relativa all’incendio di un magazzino di bibite. I titolari del “Caffè Milano” sono parti civili nel giudizio, così come l’antiracket “Gaetano Giordano”, la Fai e altri esercenti che avrebbero subito richieste estorsive dal gruppo riferibile a Di Giacomo. Sono rappresentati dagli avvocati Valentina Lo Porto e Alessandra Campailla. Parte civile, ma solo per alcuni capi di imputazione, è anche uno degli imputati, Rocco Di Giacomo (con l’avvocato Antonio Gagliano). Anche per la difesa di un altro imputato, Alessandro Pennata (rappresentato dall’avvocato Flavio Sinatra), non ci sarebbero mai stati gli estremi delle estorsioni, denunciate dai Famà. In questo caso, Pennata avrebbe agito, secondo la Dda sempre nell’interesse del gruppo stiddaro, per un recupero credito, maturato su somme che gli stessi Famà non versarono per la fornitura degli allestimenti del bar. Sono stati sentiti i responsabili del centro, che fornirono gli arredi. I Famà avrebbero chiesto di pagare in maniera dilazionata e anche sugli assegni i titolari del centro ebbero diversi dubbi. Sul finire dello scorso anno, decisero invece di agire in giudizio, per cercare di recuperare le somme mai versate dai titolari del bar di via Romagnoli.

“Abbiamo dato mandato ad un legale a novembre – ha detto uno dei responsabili – a dicembre, invece, abbiamo subito un incendio, che ha danneggiato l’attività. Ci sono indagini in corso. Nella nostra attività è venuto il presidente dell’antiracket, Renzo Caponetti, e abbiamo deciso di aderire”. Fatti che sono stati segnalati, con una denuncia formale. Il padre di Pennata, a sua volta chiamato a testimoniare, ha sottolineato che da subito sollecitò il figlio a lasciare la carica di amministratore legale di un’azienda edile, che per gli inquirenti era da ricondurre a Di Giacomo. “Voleva solo lavorare – ha detto – ma io sapevo che non aveva nessuna esperienza in quel settore e gli imposi di lasciare quella carica”. Nel dibattimento, sono inoltre imputati  Vincenzo Di Giacomo, Giovanni Di Giacomo, Salvatore Antonuccio, Benito Peritore, Vincenzo Di Maggio, Giuseppe Truculento, Giuseppe Vella, Giuseppe Nastasi e Rocco Di Giacomo. Gli imputati sono difesi dagli avvocati Giovanna Zappulla, Cristina Alfieri, Enrico Aliotta e Antonio Impellizzeri.

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