Il mercato delle commissioni, l’aula trasformata in “trazzera”…di chi è la colpa? Dei consiglieri e della città

 
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Gela. C’era bisogno, in una fase tanto difficile per la città, di “scannarsi” in aula consiliare per rivoluzionare i posti nelle commissioni? Certamente, no.

Ma, soprattutto, non c’era bisogno, e la città non ne sentiva l’esigenza, di convertire l’assise civica in una specie di “trazzera” istituzionale, fatta di insulti reciproci, toni sguaiati e offese non troppo velate. 


Il “mercato” delle commissioni. Non c’è neanche bisogno di richiamare il motto degli ultimi anni, tanto volgare quanto barometro di un costante decadimento del consiglio comunale, “leviti tu che mi ci mettu iu”…insomma, quest’aula rappresenta la città? E’ sempre difficile gettare la croce su famiglie e cittadini che, spesso, fanno fatica ad andare avanti. Purtroppo, però, quest’assise civica rappresenta la città, se non altro perché a mettere lì i trenta consiglieri siamo stati noi. Il fatidico voto glielo abbiamo “dato” noi. Questo consiglio, questi consiglieri, troppo spesso protagonisti di sitcom che non verrebbero ospitate neanche nei palinsesti estivi delle tv commerciali, quelli che non guarda nessuno, sono espressione del nostro voto. Un voto che da decenni non è più politico. Si sceglie il parente, il datore di lavoro, l’amico, il fidanzato, la fidanzata, quello/a che mi ha fatto un favore. Ma chi si interroga, prima di sbarrare simboli e nomi nella scheda elettorale, sulle capacità amministrative, sulla consapevolezza politica, sulle doti ideologiche di un candidato al consiglio comunale o di una candidata al consiglio comunale? Le liste civiche prolificano, i partiti si nascondono. Ovviamente, è inutile fare di tutta l’erba un fascio, ma davanti alle scene epocali della guerra per le commissioni, tutti perdono, anche quelli più illuminati. La città aveva bisogno del “mercato” delle commissioni? Probabilmente, non ci fa più neanche caso. Il consiglio comunale, da anni, è diventato, agli occhi di chi guarda dall’esterno, la casa di “chi non fa niente”, di chi “ruba il gettone di presenza”, di chi “sa solo fare promesse”. Consiglio comunale e città sono sideralmente distanti ma, allo stesso tempo, sono uno conseguenza dell’altra. La città, alle amministrative, vota in massa. Votano intere famiglie, votano intere aziende, votano centinaia di disoccupati e votano, appunto, in massa. Dopo la cabina elettorale, però, si spengono i macchinari. I trenta consiglieri entrano in aula, fanno e disfanno. La città, in gran parte, si assenta, “tanto sappiamo come va a finire”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, urla sguaiate, offese, numeri legali che cadono con la stessa semplicità delle foglie che si staccano dagli alberi in autunno. Un lungo inverno che non finisce neanche con le temperature roventi di giugno. La città sbaglia, i consiglieri perseverano nell’errore. Non ci sono scuse. Josè Saramago, nel descrivere lo sciopero del voto in “Saggio sulla lucidità” scriveva “che noi lo vogliamo o no, signor ministro, è notte, notte fonda”.

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