La vita non ha senso. Per fortuna

 
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Gela. Questo pezzo è una sorta di lunga nota in margine al precedente, nel quale si sintetizzava per sommi capi la bella introduzione all’ateismo di Julian Baggini, appena tradotta in italiano da Nessun Dogma. La nota è relativa al punto in cui si accennava al contenuto del quarto capitolo, nel quale Baggini discute le nozioni di senso e scopo della vita. Ebbene, per smontare il luogo comune secondo il quale chi non crede in un creatore intenzionale, intelligente e buono del mondo è condannato al nichilismo del senso e all’impossibilità di attribuire un valore alla vita, Baggini si serve di un esperimento mentale che del tutto casualmente risulta molto simile a quello da me proposto circa otto anni fa in una Nota di Facebook. La circostanza è così singolare che vale la pena riunire le argomentazioni in un unico discorso, perché si tratta di una questione di notevole importanza. Il luogo comune di cui si è detto, infatti, è un meme che agisce come un virus, costringendo le menti che attacca a seguire percorsi argomentativi fallaci inesorabili (anche se Baggini non cita mai i memi, Richard Dawkins è tra i suoi autori di riferimento, come si vede dai suggerimenti bibliografici in coda al volume). È difficile, infatti, imbattersi in menti religiose che ne siano immuni e siano in grado di vedere “valori” forti al di fuori del discorso creazionista.

Il mondo dei pulitori di gabinetti
Baggini ci invita a immaginare una distopia sul modello del “Mondo nuovo” di Huxley. Supponiamo che in un futuro da incubo qualcuno allevi in laboratorio dei cloni umani da destinare al lavoro poco appetibile della pulitura dei gabinetti. Ora, in un mondo del genere, nessuno potrebbe negare che la vita di questi sventurati abbia un senso. Il senso della loro vita è esattamente quello definito dallo scopo per cui sono stati creati: pulire i gabinetti. Tuttavia, sarebbe difficile attribuire un valore significativo a vite del genere, il cui senso è servire fedelmente lo scopo stabilito per loro da qualcun altro, ovvero fare la sua volontà.
L’obiezione che può essere mossa a questa “pompa dell’intuizione”, come la chiamerebbe il filosofo Daniel Dennett (anch’egli ben presente a Baggini, come si evince dai suggerimenti bibliografici), è che un religioso non ha dubbi sulla bontà degli scopi del creatore. Ma il punto è proprio il fatto che qui lo scopo è fissato da qualcun altro dall’esterno, per cui il clone, esattamente come un qualsiasi attrezzo inanimato, non può uscire dal “progetto” di cui è l’incarnazione. Rinunciando all’idea di poter dare essi stessi un senso alla propria vita, “le persone religiose”, conclude Baggini, “devono solo avere fede che il loro scopo non sia l’equivalente di pulire i gabinetti del paradiso per l’eternità”.

Complicare l’incubo
Lo scenario apocalittico precedente può essere ulteriormente variato per farlo assomigliare sempre di più al mondo reale così come lo vede la mente religiosa. Per impostare in maniera ancora più chiara la questione, uno degli argomenti apparentemente forti di chi lega l’origine e il destino della vita al gancio appeso al cielo di un intervento divino è il seguente. La vita, si dice, soprattutto quella umana, ha un valore assoluto, sacro, e non è a nostra disposizione, perché essa non dipende da noi, ma ci viene da un creatore intenzionale, intelligente e buono; se non fosse così, essa non avrebbe alcun valore e saremmo votati a un vuoto di senso senza rimedio.
Questo schema di ragionamento, che sopra abbiamo assimilato a un virus della mente, lega indissolubilmente tra loro le nozioni di “senso” (attribuito da qualcun altro) e “valore” o “sacralità”, come se l’una non potesse sussistere senza l’altra. Com’è noto, poi, da esso derivano tutta una serie di precetti esistenziali e sociali, non di rado convertiti in legge soprattutto nei paesi come il nostro in cui la pressione religiosa sulla politica è notevole e continua.

Ma è veramente così? A ben pensarci, non è difficile mostrare che è possibile separare le due nozioni, facendo vedere addirittura che una conseguenza dell’attribuzione di senso dall’esterno, da un certo punto di vista, è la perdita di valore intrinseco di ciò che riceve tale senso, mentre il possesso di un notevole valore intrinseco può accompagnarsi a una totale mancanza di senso. A tal fine propongo a mia volta un esperimento mentale che è la versione un po’ asimoviana di modelli artificiali già da decenni studiati da matematici, esperti di intelligenza artificiale e biologi, il più semplice e famoso dei quali è quello noto come “Gioco della Vita”, ideato una quarantina d’anni fa dal matematico inglese John Horton Conway e ormai da tempo disponibile anche in rete come gioco elettronico (e oggi chi ha uno smartphone o un tablet può scaricare la bellissima applicazione iLifeGame e divertirsi a fare il “Dio-hacker”, come lo chiama Dennett, grande appassionato del gioco di Conway).
Immaginiamo che un gruppo di ricercatori di cibernetica popoli una nicchia ecologica con umanoidi artificiali dalla vita non troppo lunga in grado di difendersi, riprodursi, comunicare, sognare e formulare ipotesi su se stessi e sul mondo. L’esperimento ha uno scopo e termina quando qualcuno, dopo aver scoperto (non importa come) la verità unica sulla natura degli umanoidi e sul senso della loro vita, riesce a convincere tutti gli altri, i quali naturalmente avranno sviluppato, singolarmente o a gruppi, molte altre mitologie (tutte false) sul tema in questione. A quel punto, il gruppo di ricercatori appare agli umanoidi, rivela loro il gioco e li accoglie nella comunità umana per adorare e servire beatamente l’ingegnere-capo, il quale li aveva fatti a sua immagine e somiglianza (come ipotizzato dalla dottrina vincente). Naturalmente non è possibile sapere quanto durerà l’esperimento. Possiamo solo dire che i ricercatori intervengono ogni tanto per evitare catastrofi, come l’estinzione, che possano pregiudicare la riuscita dell’esperimento stesso. È facile capire che gli stessi interventi occasionali e misteriosi dei ricercatori verranno assorbiti e reinterpretati come miracoli, apparizioni ecc. all’interno delle congetture in competizione elaborate di generazione in generazione dagli umanoidi, i quali non mancheranno nemmeno di ammazzarsi ogni tanto a vicenda in nome delle loro fantasie, anche se nei loro circuiti neurali è implementato il software del razionalismo critico popperiano.
Ebbene, chi potrebbe negare che la vita dei nostri umanoidi abbia un “senso”? Tale senso è quello conferito ad essa dall’esperimento ed è uno dei cardini della dottrina vincente, mentre esiste in versione più o meno approssimata anche in quelle perdenti. Tuttavia è difficile sostenere che la vita degli umanoidi abbia un qualche valore significativo, al di là di quello contenuto nella conoscenza e nella tecnologia che stanno alla base della sua creazione, che in ogni caso è apprezzabile solo dai ricercatori, i quali sono in grado di riprodurre serialmente tutti gli umanoidi che vogliono. Da questo punto di vista, sfido chiunque a sostenere che la vita dei nostri umanoidi sia una roba desiderabile: quella che abbiamo descritto qui e che assomiglia a quella prospettata da qualche setta religiosa molto popolare e influente, infatti, è una forma di vita da incubo, benché dotata di un preciso e luminoso senso trascendente.

Il valore della vita insensata
Torniamo ora alla nostra vita così come essa ci appare alla luce delle conoscenze biologiche più avanzate e corroborate. Noi sappiamo ormai che non siamo il risultato di un esperimento “intelligente” del tipo di quello sopra descritto, ovvero che la nostra vita non ha un senso che la trascenda. Sappiamo che siamo il prodotto cieco e “ignorante” dell’evoluzione; che veniamo dal basso e non dall’alto; che la stragrande maggioranza degli esseri viventi nati sulla Terra è già morta; che abbiamo la straordinaria fortuna di essere vivi in questo momento; che la probabilità di essere morti è molto più grande di quella di essere vivi (perché per ogni essere umano che raggiunge l’età adulta un numero considerevole di spermatozoi, di ovuli, di embrioni, di feti e di bambini “deve” morire); che nella scatola cranica di ciascun essere umano attualmente in vita si trova un pezzetto del più complicato, mirabolante e prezioso agglomerato di materia di tutto l’universo conosciuto; che ciascuno di noi è un esemplare unico e irripetibile per complessità e improbabilità, ecc. ecc. Ebbene, da un siffatto punto di vista, peraltro facilmente condivisibile da chiunque sia dotato di un livello anche infimo di razionalità e autocoscienza, è difficile negare un valore incommensurabile, e se vogliamo anche “sacro”, alla vita umana, che però (e per fortuna) si accompagna a una fondamentale mancanza di un senso trascendente.

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