Morte Romano, imputati condannati hanno impugnato: fissato l’appello

 
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L'operaio Francesco Romano morì dodici anni fa

Gela. Le condanne, tutte con pena sospesa, risalgono allo scorso febbraio. Tredici imputati e le società di riferimento vennero ritenuti responsabili di quanto accaduto nel novembre di nove anni fa, alla radice pontile della fabbrica Eni. L’operaio trentenne Francesco Romano morì dopo essere stato travolto da un tubo da otto tonnellate. Era accatastato nell’area di cantiere, dove si lavorava al programma di sostituzione della linea P2. Per l’operaio, allora dipendente della Cosmi Sud, non ci fu nulla da fare. Le difese di tutti gli imputati hanno impugnato le sentenze di condanna e la vicenda verrà valutata dai giudici della Corte d’appello di Caltanissetta. Il procedimento di secondo grado è stato fissato per il prossimo dicembre. L’attività di indagine fu lunga e anche sul piano istruttorio, nel dibattimento di primo grado, ci sono volute approfondite analisi tecniche, che hanno permesso al giudice Miriam D’Amore di arrivare alla pronuncia. In base a quanto stabilito nelle motivazioni, ci furono inosservanze e irregolarità nella gestione del cantiere. Sarebbero state decisive per determinare l’incidente mortale. In primo grado, la condanna ad un anno e otto mesi di detenzione (sempre con pena sospesa) è stata pronunciata nei confronti di Bernardo Casa, Fabrizio Zanerolli, Nicola Carrera, Marco Morelli, Alberto Bertini, Patrizio Agostini, Sandro Iengo, Rocco Fisci e Serafino Tuccio. Un anno e sei mesi di reclusione, invece, per Mario Giandomenico, Angelo Pennisi e Vincenzo Cocchiara. Infine, un anno e quattro mesi a Salvatore Marotta. Tutti i difensori hanno impugnato. Le uniche assoluzioni sono state decise per le posizioni di Guerino Valenti, Fabrizio Lami e Ignazio Vassallo. Sono stati condannati invece i vertici di Cosmi Sud, azienda per la quale lavorava l’operaio, Eni e delle aziende che a vario titolo avrebbero dovuto occuparsi dei controlli e dei protocolli di sicurezza. I legali degli imputati, nel corso del giudizio di primo grado, avvalendosi di supporti tecnici, hanno contestato le accuse, escludendo violazioni della normativa in materia di sicurezza. Tra le contestazioni, c’è l’omicidio colposo. Il pm Luigi Lo Valvo ha sostenuto l’accusa nel dibattimento di primo grado e anche nelle conclusioni ha ribadito che la morte dell’operaio fu la conseguenza finale di “una catena di inefficienze”. Il tubo che travolse Romano si staccò da una catasta, che era già da tempo presente nell’area dei lavori. Sono stati passati al setaccio tutti i piani di sicurezza e accusa e difese si sono confrontati su tutti questi aspetti. Imputati e società, in primo grado, sono stati condannati, inoltre, a risarcire i danni alla famiglia dell’operaio (i genitori e la moglie).

Le partici civili, fin dall’inizio dell’indagine, sono state rappresentate dagli avvocati Salvo Macrì, Emanuele Maganuco e Joseph Donegani, che in più occasioni hanno indicato quelle che ritengono pesanti anomalie nella gestione del cantiere, finito poi al centro dell’indagine, coordinata dalla procura, e condotta dai militari della capitaneria di porto. Romano lasciò anche due piccole figlie. Le società, in relazione alle responsabilità amministrative, sono state condannate al pagamento di trecento quote (da 500 euro). Decisione che tocca Eni, Cosmi Sud, Pec srl e Sg Sertec. Con l’appello avanzato dalle difese, i giudici nisseni di secondo grado dovranno ritornare sul caso. I legali degli imputati cercheranno di ottenere decisioni favorevoli, ribaltando quella emessa dal tribunale di Gela. I difensori dei manager Eni hanno ribadito che la posizione aziendale dei loro assistiti non poteva estendersi agli aspetti tecnici dei cantieri, non rientrati nelle loro funzioni.

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