Bimbi docet!

 
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Domenica pomeriggio sono stata invitata al museo. Lì si teneva e si terrà il prossimo sabato e domenica Paolab intitolato  “in fondo al mar,  tra segni forme e colori”.

L’evento era organizzato dal Soroptimist e i laboratori sono della dott.ssa Paola Rinciani

Quando sono arrivata il museo era gremito di bambini dai 5 ai 10 anni accompagnati dai genitori che, poco dopo, avrebbero lasciato i loro bambini non senza prima aver immortalato qualche momento con una foto che avrebbero rivisto subito dopo dicendo a sè stessi, con sguardo compiaciuto ed orgoglioso, quanto fosse bella la propria figlia, quanto fosse diventato grande loro figlio. Li avrebbero lasciati in compagnia di altri bambini forse preoccupati perché si sa, i genitori  vengono sempre assaliti da una buona dose di preoccupazione quando si tratta di lasciare anche solo per qualche ora i propri figli. E invece loro li fregano sempre. Non sono solo belli, sono anche inaspettatamente indipendenti perché sicuri dell’amore. Perchè non si interrogano sull’assenza di questo, non ne conoscono la possibilità.

In poco tempo salutavano velocemente mamme tronfie di gioia e tenerezza e facevano una cosa che noi grandi non sappiamo fare. O facciamo male, impegnati come siamo il più delle volte, a guardarci con diffidenza: conoscevano l’altro.

Cose dei grandi, penserete! Allora vi racconto quelle dei piccoli.

Li guardavo prendere posto in uno spazio creato per l’occasione all’interno del museo (mi domandavo perché non ne esista uno adatto  per loro -per favorire  l’aggregazione- ma questa è un’altra storia che, se approfondita, trascenderebbe nella polemica e il tema di cui parlo adesso è troppo poetico per mischiarlo con le cose dei grandi che spesso di poetico non hanno nulla). Erano meravigliosamente impavidi di fronte alla possibilità di sedere in gruppo tra sconosciuti e mi veniva in mente la miriade di volte che, noi grandi, in gruppo non facciamo gruppo ma ci illudiamo di averlo fatto per il sol fatto di aver rivolto la parola al nostro vicino in pizzeria portato dall’amica, salvo poi trascorrere l’intera serata a guardar con diffidenza e il naso un pò all’insù quello che “non conosciamo bene”

Paola Rinciani, con la dolcezza che solo chi ama i bambini ha, iniziava a parlare e il vocio festoso che riecheggiava in quella stanza improvvisamente si placava: “Pensate ad una giornata al mare trascorsa con i vostri genitori e disegnate ciò che questo vi fa venire in mente”. Null’altro, non dava altre direttive, non spiegava come fare e non facendolo lasciava che in ognuno di quei bambini germogliasse la più preziosa delle carte vincenti di cui-da grandi- sperando non scordino com’era da bambini-avranno bisogno: la libertà di dare spazio alle emozioni, di crearle, di averne proprie.

In un attimo, quella frase e il suono che aveva, demoliva la regola dell’esser “più bravo”, ”più intelligente”, “più laborioso” e nessuno di quei bambini era l’ingegnere che la madre aspira (benevolmente) sia, l’avvocato principe del foro che farà tremare i giudici, il medico scopritore della cura contro l’antagonismo schizzoide di Siciliano odierno-vice sindaco. Era un bambino. Non più bravo di un altro, non più bello, non con una scarpa alla moda, non con un cerchietto di piuma. Semplicemente un bambinoche creava la sua giornata al mare con i genitori. Senza filtri, senza paure.

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La maggior parte di loro cominciava disegnando il mare, la più impavida- sdoganando la consuetudine di guardar nel foglio del vicino- disegnava una stella; chiedeva alla  Rinciani se  stava facendo bene e non per insicurezza ma per una dote che solo i bambini hanno: la certezza di far bene pur sbagliando. Ho prestato attenzione alla risposta. Avrebbe detto che sbagliava? Di guardare gli altri compagnetti di gioco ( così inculcando, involontariamente, l’odiata idea che per far bene è necessario fare come gli altri)? No! La guardava con sguardo benevolo e sorridendo diceva: ”va bene, è una stella marina” Bastava questo  per svuotare la testa di quella bambina del germe più pericoloso che certo, si sarebbe insidiato, se la risposta fosse stata di omologarsi. Ecco a te, bella bambina, un regalo che un grande ti avrebbe fatto: la convinzione- che negli anni sarebbe germogliata- di non riuscire a farcela da sola, di doversi omologare ai più (ai più  cosa poi?). Perché si sa, ciò di cui da piccoli ci convinciamo , se le risposte non sono corrette, diventano le battaglie che da grandi saremo chiamati a vincere con noi stessi.

Lì, tra la creatività imperante, le risate gioiose di quei bambini, la gentilezza dei modi di Paola Rinciani nel rispondere alle loro domande, tra una matita da temperare e una mamma al mare  di cui disegnare il sorriso ho capito la cosa importante: le ramanzine, i discorsi, le parole a volte sono sterili. L’unica forza che smuove è l’esempio, il gesto che accompagna o sostituisce le parole.

Purtoppo, non tutti i grandi, dimenticando di esser stati bambini se ne ricordano, ma esempi come questi invitano a far girare la voce. E a tirare un sospiro di sollievo.

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