Il Dostoevskij inesistente del primo ministro

 
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Ha destato una certa curiosità il fatto che Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel suo discorso per la fiducia tenuto al Senato il 5 cinque giugno scorso, abbia citato, tra gli altri, il sommo scrittore russo dell’Ottocento Fëdor Dostoevskij. Naturalmente fa piacere che un Primo Ministro esibisca riferimenti culturali di livello così elevato in una occasione particolarmente solenne come la richiesta di fiducia al proprio governo nell’aula del Senato.

Cosa ha detto Conte
Alcuni osservatori, però, hanno subito notato in questa citazione delle anomalie che insospettiscono. Vediamo intanto il passo del discorso in cui essa è inserita: «Le forze politiche che integrano la maggioranza di governo sono state accusate di essere “populiste” e “anti-sistema”. Sono formule linguistiche che ciascuno può declinare liberamente. Se “populismo” è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente – prendo spunto da riflessioni di Dostoevskij tratte dalle pagine di “Puškin” –, se “anti-sistema” significa mirare a introdurre un nuovo sistema, che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, ebbene queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni».
Come si vede, ci troviamo in un momento molto importante del discorso, perché Conte deve rispondere alla grave accusa di populismo che viene rivolta ai due partiti che hanno dato vita al suo governo. La strategia retorica di difesa da lui scelta, però, consiste non in una negazione dell’accusa, ma in una orgogliosa rivendicazione dell’“etichetta”, purché la si intenda in un modo ben preciso, vale a dire purché si intenda per populismo “l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente”. A questo punto Conte ha buon gioco nel concludere che, se una cosa così bella e commovente è populismo, allora Lega e Movimento 5 Stelle meritano di essere definite forze populiste. Si noti, di passaggio, che questa strategia retorica è apparentemente molto efficace, ma in realtà è solo un sofisma che, come abbiamo visto in un precedente articolo illustrando il libro di Stephen Law sui trucchi per sostenere credenze infondate, consiste nello spostamento subdolo dei pali semantici. Insomma, è come se uno rispondesse all’accusa di essere un ladro dicendo: “Se per ‘rubare’ si intende ‘cercare di migliorare la sorte dei poveri’, allora sì, io sono un ladro e ne sono fiero”.
Ciò che è interessante, però, è il fatto che Conte dica di ispirarsi a un preciso scritto di Dostoevskij per la sua singolare definizione di populismo. Si tratta di un discorso in forma di saggio che lo scrittore pronunciò a Mosca l’8 giugno 1880, nel corso di una seduta solenne della “Società degli amici della letteratura russa”, in occasione dell’inaugurazione del monumento al grande poeta nazionale Puškin, morto 43 anni prima. Ma davvero il testo dostoevskiano giustifica l’uso che ne fa Conte? Prima di affrontare la questione, occorre ricordare che qualcuno, come ad esempio l’inviata di “The Atlantic” a Parigi Rachel Donadio, ha osservato su Twitter che un analogo riferimento al discorso di Dostoevskij lo aveva fatto il 24 maggio scorso Macron a San Pietroburgo nel corso di una conferenza stampa tenuta insieme a Putin. È lecito quindi sospettare che la citazione del tutto non pertinente (come vedremo) di Conte sia semplicemente un ammiccamento alla Russia, come a dire che il nuovo governo italiano guarda con simpatia al sovranismo putiniano, che per certi versi si ispira al tradizionale nazionalismo russo ben espresso da Dostoevskij nel suo discorso su Puškin. In tal senso, la citazione di Conte, magari suggerita da altri, andrebbe letta in modo obliquo come messaggio cifrato. Qui però non abbiamo lo scopo di decodificare in chiave geopolitica il discorso di Conte, anche perché è stato già fatto da altri (per esempio da Lucia Annunziata sull’”Huffington Post” italiano). Qui vogliamo prendere il riferimento per come esso si presenta: una citazione colta ad opera di un professore universitario di diritto diventato improvvisamente Presidente del Consiglio.

Cosa aveva detto Dostoevskij
Se però si va a leggere con attenzione il testo di Dostoevskij, si rimane sconcertati, perché non c’è niente in esso che giustifichi il suo utilizzo nel discorso del nostro Primo Ministro. Dostoevskij non parla mai del rapporto tra governanti e popolo, né, tanto meno, del rapporto “populista” tra governanti e popolo così come lo definisce Conte. Dostoevskij, invece, parla sostanzialmente di due cose: 1) del modo in cui il poeta e “profeta” Puškin ha dato voce all’anima del popolo russo e di altri popoli europei, soffermandosi in particolare sui personaggi di due opere, “Gli zingari” e “Evgenij Onegin”; 2) del destino del popolo russo in rapporto agli altri popoli europei, ovvero di quella che per ben due volte egli definisce “razza ariana”.
A proposito del punto 2 (del punto 1 si dirà in chiusura), quello più squisitamente politico, siamo di fronte a una precisa presa di posizione di stampo nazionalista, basata sul mito romantico del genio del popolo e della sua missione universalista. In sostanza, Dostoevskij, che è ben consapevole di lasciarsi andare a una retorica ai limiti del delirio patriottico (“Lo so anche troppo bene, che le mie parole possono sembrare esaltate, esagerate e fantastiche”, in “Diario di uno scrittore”, Bompiani 2017, p. 1279), sostiene che il destino del popolo russo, il cui spirito è colto compiutamente nell’opera di Puškin, è quello di armonizzare la propria universalità con quella degli altri popoli europei, in vista di un futuro radioso sotto il segno della “legge evangelica di Cristo”. Se ora pensiamo al dibattito nostrano sul populismo al governo, è inevitabile chiedersi: cosa c’entra con questo il misticismo nazionalista e internazionalista di Dostoevskij? Attraverso quali passaggi interpretativi Conte ha desunto la propria definizione ad hoc di populismo dal testo dostoevskiano?
La risposta a questi interrogativi non si trova nemmeno nella prefazione al discorso-saggio che Dostoevskij scrisse un paio di mesi dopo allorché lo pubblicò nel “Diario di un scrittore”. Qui sono meglio esplicitate le sue implicazioni politiche, che vanno ben oltre Puškin e riguardano lo scontro ideologico tra gli slavofili, cioè i nazionalisti come Dostoevskij, e gli occidentalisti, cioè gli europeisti sostenitori di una cancellazione dello “spirito” profondo del popolo russo per modernizzare il paese votandolo al progresso scientifico e al laicismo. Ma nemmeno in queste pagine si trova qualcosa che possa essere messo in relazione con il “populismo” nel senso difeso e rivendicato da Conte, a meno che non si voglia sostenere che gli “europeisti” di oggi corrispondono agli occidentalisti tecnocrati di cui parla Dostoevskij, mentre i “populisti” sovranisti nostrani sono una versione in salsa italiana degli slavofili – romantici, nazionalisti e misticheggianti – dalla cui parte stava lo scrittore, pur con caute aperture agli avversari.

Gli zingari e l’ospite “migrante”
Non solo. Non si può per concludere non rilevare una cosa nel testo di Dostoevskij che rende tutta la situazione addirittura esilarante e fa capire che forse né lui né, tanto meno, i vice-presidenti Di Maio e Salvini, che gli sedevano accanto durante il discorso al Senato, sapevano di cosa stessero parlando tirando in ballo il nome del grande romanziere russo. Si pensi in particolare al neo-ministro dell’Interno Salvini e a tutti i suoi sproloqui da campagna elettorale sulle ruspe da mandare nei campi rom e sulle espulsioni dei migranti clandestini. Ebbene, Dostoevskij dedicava le pagine iniziali del suo discorso al poema giovanile di Puškin “Gli zingari”, scritto nel 1824, di cui fornisce una penetrante interpretazione entrata nella storia della sua fortuna critica. E di cosa si parla in questo poemetto? Vi si racconta una storia di sangue che, riletta oggi nel contesto che stiamo discutendo, non può non strappare una sonora risata, perché offre involontariamente e in maniera beffarda un quadro rovesciato di situazioni a noi ben note. Una carovana di zingari della Bessarabia accoglie un “migrante”, Aleko, un giovane borghese scappato dalla noia, dagli obblighi e dai vizi della città. Gli zingari vivono all’insegna della libertà e del contatto con la natura e pertanto il giovane, trovato dalla figlia di un anziano della tribù, con la quale si sposa, sembra realizzare il proprio sogno romantico di felicità. I suoi costumi borghesi, però, entrano presto in conflitto con lo spirito libero degli zingari, e in particolare con quello della giovane moglie Zemfira, la quale comincia senza alcun problema ad amoreggiare con un altro zingaro. Aleko, quando fiuta il tradimento della moglie, è accecato dalla gelosia e non si rende conto che “tradimento” e “gelosia” sono nozioni sconosciute alla cultura che lo ha accolto con tanta generosità. Sorpresi i due amanti presso una tomba, il migrante non riconoscente li accoltella entrambi mortalmente, e per questo gesto viene “espulso” nell’unico modo in cui può esserlo un cittadino ospitato da dei nomadi: viene lasciato indietro e abbandonato.
A questo punto ci si chiede: Conte, in quanto studioso di diritto che medita sul pensiero politico di Dostoevskij e trae ispirazione da esso per la giustificazione ideologica della propria attività di Presidente del Consiglio, ha avvertito il suo ministro dell’Interno che ne “Gli zingari” Puškin raccontava una storia che ride di lui e dei suoi elettori?

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