Incidente fatale, morì Fecondo: condannato imprenditore, “deve risarcire familiari”

 
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L'operaio Giuseppe Fecondo morì dopo l'incidente sul lavoro

Gela. La fine dell’operaio sessantaquattrenne Giuseppe Fecondo fu tragica. Morì a causa delle gravissime ferite riportate dopo essere precipitato dal tetto di un capannone aziendale, nell’ex area Asi di Brucazzi. Per quei fatti, il giudice Miriam D’Amore ha condannato l’imprenditore Davide Catalano. Un anno e sei mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento della provvisionale riconosciuta ai familiari della vittima, per un ammontare di 30 mila euro. Alle parti civili spetta anche il diritto al risarcimento dei danni. Fecondo, che per anni aveva lavorato nell’indotto di raffineria, solo da qualche giorno aveva accettato l’ingaggio della Cimet di Catalano e avrebbe dovuto effettuare lavori per l’installazione di pannelli fotovoltaici. Un sopralluogo condotto sul tetto della struttura aziendale, dove dovevano essere collocati i sistemi, si rivelò fatale. Fecondo precipitò nel vuoto e morì dopo l’arrivo all’ospedale “Vittorio Emanuele”. Il pm Pamela Cellura ha concluso la sua requisitoria chiedendo la condanna dell’imputato a due anni e sei mesi di reclusione e quella della società al pagamento di mille quote. E’ stato spiegato in aula, che l’operaio non sarebbe stato dotato dei necessari presidi di sicurezza. Sarebbero mancati anche i sistemi anti-caduta per i lavori da svolgere in quota. Secondo la ricostruzione della procura, Catalano prima di informare i familiari di Fecondo, avrebbe chiesto ad altri dipendenti di prelevare tutto il materiale da lavoro presente al momento dell’incidente, per portarlo via. L’assenza delle misure di sicurezza previste dai protocolli di legge è stata ribadita dai legali dei familiari di Fecondo, costituiti partici civili con gli avvocati Giacomo Di Fede, Rosario Giordano e Cristina Guarneri. Hanno ripercorso quanto accadde il giorno dell’incidente e su un piano più strettamente tecnico hanno sostenuto che i sistemi adottati non sarebbero stati sufficienti ad impedire l’incidente. “Fecondo doveva muoversi in uno spazio ristretto, quasi come un equilibrista”, hanno detto. Secondo la loro linea, l’imputato avrebbe dato priorità al profitto scaturito dall’appalto ottenuto, cercando di risparmiare il più possibile sui costi dei dispositivi di sicurezza. Considerazioni che invece sono state respinte dalla difesa dell’imprenditore, rappresentata dall’avvocato Fabrizio Ferrara. La difesa, infatti, ha anzitutto sottolineato l’anomalia delle indagini, che si sarebbero focalizzate da subito solo sull’imprenditore, ma mai effettuando approfondimenti sull’efficienza degli interventi dei sanitari, dato che Fecondo sarebbe giunto cosciente al nosocomio di Caposoprano.

Il legale ha escluso l’intenzione da parte dell’imprenditore di alterare i luoghi dell’incidente, per tentare di allontanare qualsiasi responsabilità. E’ stata ribadita la regolarità delle misure adottate. Il difensore non ha escluso che l’operaio possa essere stato tradito dall’eccessiva esperienza e dal fatto che fosse sicuro di poter realizzare il lavoro senza troppi rischi. L’imprenditore, secondo la ricostruzione del legale, rimase vicino a Fecondo anche in ospedale. Il giudice Miriam D’Amore ha disposto la condanna, indicando la prescrizione solo per alcune ipotesi contravvenzionali. Con la formula “il fatto non sussiste” ha invece escluso qualsiasi responsabilità per la Cimet, come chiesto dal difensore, l’avvocato Francesco Giocolano. Per il legale, dalle indagini e dall’istruttoria dibattimentale non sono mai emersi profili di responsabilità da collegare alla società, nonostante la richiesta di condanna formulata dal pm. La difesa di Catalano, dopo il deposito delle motivazioni, potrebbe rivolgersi alla Corte d’appello di Caltanissetta.

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