L’omicidio Di Maria, le accuse ai Morso: il ventottenne ucciso con una coltellata

 
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L'abitazione di Molassana dove venne ritrovato il cadavere

Gela. Ricostruzioni contrastanti e un rimpallo di responsabilità tra i quattro imputati. E’ entrato nel vivo il dibattimento, aperto davanti ai giudici della Corte d’assise di Genova, scaturito dall’omicidio del ventottenne Davide Di Maria. Il giovane, per gli investigatori liguri attivo tra le piazze di spaccio della città, venne ucciso nel settembre di due anni fa. Per i pm della procura genovese, ad ucciderlo sarebbe stato il trentacinquenne Guido Morso, figlio del gelese Vincenzo Morso, ritenuto uno dei principali referenti dei clan di cosa nostra a Genova e anche lui a processo. Al trentacinquenne viene contestata l’accusa di omicidio. Secondo i pm, sarebbe stato lui ad uccidere Di Maria. Il padre, invece, è ritenuto responsabile di rissa aggravata. A processo, con la stessa accusa di Vincenzo Morso, ci sono anche Cristian Beron e Marco N’Diaye. Erano tutti in un appartamento della zona di Molassana, dove venne poi ritrovato il cadavere di Di Maria.

Versioni discordanti. In aula, ha deposto Beron, che ha ammesso la colluttazione scoppiata nell’abitazione, probabilmente dovuta ad un debito di droga. Per gli inquirenti, Di Maria sarebbe morto a causa di una coltellata. La lama, però, non è mai stata trovata. Beron ha spiegato che c’erano almeno due pistole, una l’avrebbe avuta N’Diaye e l’altra Vincenzo Morso. Tra i due sarebbe subito scoppiata una violenta colluttazione e, stando alla versione di Beron, Guido Morso, nel tentativo di supportare il padre, avrebbe colpito alla gamba N’Diaye, proprio con un coltello. Il trentacinquenne, però, ha sempre escluso di aver usato una lama e anche per questa ragione, dopo essersi costituito, ha iniziato ad escludere un suo ruolo nella morte del ventottenne. Davanti ai giudici genovesi, sono attesi nuovi testimoni.

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