“Non segnalai subito, temevo per il posto”, parla operatore ferito all’imbottigliamento

 
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Gela. Non avrebbe segnalato subito l’infortunio subito, anche per timore che potessero esserci ripercussioni per il posto di lavoro. Lo ha spiegato, ieri davanti al giudice Miriam D’Amore, un dipendente di Eni, che alcuni anni fa rimase vittima di un grave incidente, all’impianto di imbottigliamento. Riportò la lacerazione del retto femorale, con una prognosi di trecento giorni. Solo dopo tempo riuscì a rientrare in servizio e ancora oggi lavora alle dipendenze dell’azienda. Per quanto accaduto, sono a processo tecnici e responsabili dell’impianto, ma anche il medico che si occupò dei primi interventi e che per l’accusa cercò di ridimensionare le conseguenze subite dall’operatore, anche rispetto alla trasmissione del referto ufficiale. Il lavoratore, che è parte civile nel giudizio, ha risposto alle domande delle parti e soprattutto a quelle del suo legale, l’avvocato Rocco Guarnaccia. Ha raccontato quello che accadde nelle ore immediatamente successive all’incidente e nei giorni successivi. Sarebbe stato trasferito in una clinica privata, trasportato su un taxi. Inizialmente, il medico che prese in carico il caso, gli avrebbe anche consigliato di non procedere subito a denunciare l’accaduto, pare riferendosi al posto di lavoro e ad eventuali conseguenze. Sarebbe stato rassicurato sul fatto che la situazione clinica non fosse grave. Successivamente, però, a seguito di altri accertamenti, emerse un quadro molto più complicato e ancora oggi l’operatore risente di quanto accaduto, con il riconoscimento di una percentuale di invalidità. Per i pm della procura, ci sarebbe stato il tentativo di non fare filtrare nulla di quell’incidente e anche i tecnici dell’impianto avrebbero spinto affinchè il lavoratore attendesse prima di segnalare. L’operatore, rispondendo alle domande, ha anche parlato di un manuale operativo dell’impianto che sarebbe stato definito solo dopo il suo infortunio. In base all’esito delle indagini, anche sull’impianto ci sarebbero state modifiche tali da averlo reso meno sicuro e non in linea con le indicazioni normative. Dopo aver compreso che c’era la necessità di segnalare l’infortunio, il lavoratore si rivolse alle autorità competenti e gli stessi magistrati della procura iniziarono tutti gli accertamenti, non solo sulle possibili responsabilità degli addetti ma anche del medico. Sono a processo  Giuseppe Scifo, Nicola La Cognata, Rocco Mendola, Antonio Damaggio e Maria Rosa Martire. Dopo il rientro al lavoro, l’operatore avrebbe notato un comportamento vessatorio nei suoi confronti. “Mi venne detto che dovevo stare solo nella zona del fumatoio o in quella dei bagni”, ha riferito ancora rispondendo anche alle domande del pm Ubaldo Leo. I difensori degli imputati e il legale di Raffineria (che è responsabile civile) hanno sempre escluso anomalie, sostenendo che tutte le procedure vennero rispettate.

Secondo questa linea, non ci sarebbe stata nessuna volontà di coprire l’incidente. Solo dopo diversi mesi, gli ispettori dello Spresal e i poliziotti effettuarono le prime verifiche nell’impianto e soprattutto sulla “giostra”, usata per il ciclo produttivo. Altri testimoni saranno sentiti nel corso delle prossime udienze. Gli imputati sono rappresentati dagli avvocati gli avvocati Nicoletta Cauchi, Carlo Autru Ryolo e Gualtiero Cataldo.

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