Giordano ucciso 27 anni fa, il figlio Massimo: “Non ho perdonato i killer”

 
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Gela. Erano da poco scoccate le 20.30 di un 10 novembre qualsiasi, un giorno come gli altri, intriso di lavoro e di fatica. E di pensieri. Un 10 novembre tramutatosi in pochi istanti in tragedia. Una tragedia che colpì una famiglia, un’intera città. Un colpo mortale inferto ad un territorio che aveva già pianto i cadaveri di una sanguinosa e barbara guerra di mafia. Tanti morti ammazzati lungo le strade, divenute veri e propri campi di battaglia. Si era quasi al crepuscolo del 10 novembre e in via Verga, a ridosso del “carcere” vecchio, mani spietate di criminali malefici e famelici, colpirono a morte il commerciante Gaetano Giordano, 55 anni, titolare di alcune profumerie, “colpevole” di non avere pagato il pizzo. Ucciso sotto casa, raggiunto da una sequela di proiettili scaricati con freddezza da chi aveva giurato fedeltà al clan mafioso della Stidda e i cui vertici avevano decretato l’eliminazione del negoziante. Giordano era sulla sua Fiat Panda in compagnia del figlio Massimo, allora ventiduenne, quando la pistola fece fuoco. “Ricordo che eravamo giunti sotto casa e, scesi dalla macchina, papà stava chiudendo l’auto con me accanto, spalle alla strada. Ad un certo punto ho sentito un rumore ripetuto, simile a quello dei mortaretti, che mi ha spinto, inconsciamente, a fare un salto tra l’auto e il muro, proteggendomi da un qualcosa che solo dopo ho compreso essere colpi d’arma da fuoco. Girato attorno all’auto, ho notato mio padre riverso per terra ancora in vita, ma non più in grado di parlare. Mentre cercavo di accertarmi dell’effettivo stato di salute di mio padre, ho avvertito una sensazione di bagnato, scoprendo che del sangue fuoriusciva dai miei pantaloni, rendendomi conto di esser stato colpito da un proiettile che era entrato ed uscito in corrispondenza dell’inguine. A questo punto sono salito su una macchina, fermata per prestarmi soccorso, per essere portato in ospedale”. Il racconto del figlio di Giordano, è lucido, senza alcuna interruzione. Parla seguendo l’istinto. E ricorda frammenti e dettagli di quella sera. “Accertato che la ferita non aveva determinato gravi conseguenze, il mio primo pensiero fu ovviamente rivolto a mio padre, che avevo lasciato lì per terra ancora in vita in attesa che arrivassero i soccorsi, del cui stato di salute non avevo più avuto alcun aggiornamento. Dopo poco mi venne riferito che papà era in sala operatoria, ma, solo con l’arrivo da Milano di mia madre Franca e di mia sorella Tiziana, venni a sapere che era morto durante il trasporto in ospedale nella macchina dei Carabinieri”. Momenti terribili.

Chi ti è stato vicino?

“Mia madre, mia sorella, la mia ragazza, gli amici miei e di famiglia ….. l’intera città”.

Avevi intuito che fosse stata la mafia a decretare l’assassinio?

“Si, perché ero a conoscenza della posizione di non adesione alle richieste estorsive che mio padre aveva sempre tenuto nei confronti di coloro che, medio tempore, erano venuti in negozio a chiedere il “pizzo”, fino a determinarsi a sporgere denuncia nei confronti di uno di questi”.
La magistratura ha inchiodato alle proprie responsabilità mandanti ed esecutori.
” Si, anche grazie al contributo di alcuni pentiti. Il mandante, Orazio Paolello, mi risulta ancora in galera”.

Riesci a perdonarli?
“No! Come potrei!”
Gela per i funerali di papà scese in piazza, gridando il proprio no alla mafia. Cosa ricordi di quell’episodio?

“Una grande reazione di sdegno da parte di tutta la società “civile”, l’inizio di un nuovo corso che, dopo 27 anni, può vantare uno dei movimenti antiracket più attivi dell’intero territorio nazionale, un esempio per tanti!”
Hai mai incrociato, durante i processi, gli sguardi dei killer e dei mandanti?
“Se non ricordo male, solo uno dei presunti esecutori materiali, in un’udienza tenutasi presso il Tribunale dei Minori di Caltanissetta, nel corso della quale era stato ascoltato come teste”
E cosa hai provato?
“Tanta rabbia!”
A Gela c’è un’associazione antiracket che porta il nome di tuo padre e che fa proseliti. Tanti denunciano, altri no. Secondo te perché?
“Non saprei!”.

 

Quanto è valso il sacrificio di tuo padre?
“Non penso che mio padre fosse disposto a morire, quantomeno, se avesse immaginato tale livello di rischio, avrebbe preso le dovute precauzioni. In ogni caso, se devo scorgere qualcosa di positivo in questa vicenda familiare così drammatica, che, da quel giorno, ha, inevitabilmente, condizionato la mia vita e quella di tutta la nostra famiglia, è sicuramente l’esempio che ha lasciato a tutti noi, ai più giovani, al territorio ….. come dire ….. chi si volta dall’altra parte muore tutti i giorni ….. e questo messaggio viene quotidianamente compreso da sempre più persone!”.
Denunciare conviene?
“Sempre. Senza se e senza ma!”
Tu e tua sorella siete andati via da Gela dopo quanto accaduto. E’ rimasta solo tua madre. Avete mai pensato di ritornare?
“No, perché avevamo già deciso di andare a vivere da un’altra parte, a prescindere dall’omicidio di nostro padre, tanto è vero che frequentavamo l’università Luiss e, dopo aver terminato il corso di laurea, siamo rimasti a Roma”.
Troppi ragazzi sono tentati dai soldi facili e dunque sono facilmente appetibili dalla criminalità. Qual’è il rimedio per frenare questo modo di pensare e di agire?
“La scuola ha un ruolo determinante, soprattutto, dove il contesto familiare non aiuta! I buoni esempi, appresi in giovane età, aiutano a non cedere a facili tentazioni”. Il 10 novembre, non sarà mai un giorno qualsiasi. La ferita è ancora aperta e sanguina vistosamente. Qualche minuto dopo le 20.30 di quel giorno di 27 anni fa, il sacrificio di un uomo perbene diede la scossa per una vera e propria ribellione. In tanti capirono; in troppi, però, a distanza di tempo, fanno finta di capire, sottostando alle vessazioni continue di predatori senza scrupoli. E senza dignità!

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