“A Mazzarino il nome di Salvatore Sanfilippo incute timore”, carabiniere in aula: “Metodi feroci”

 
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L'indagine è stata condotta dai carabinieri e dai pm della Dda di Caltanissetta

Gela. “Ancora oggi il nome di Salvatore Sanfilippo incute timore tra le persone, spingendole ad un’omertà che non è connivenza ma autodifesa. In quattordici anni in Sicilia non avevo mai visto una cosa di questo tipo”. Questa mattina, è stato il tenente Danilo Landolfi, che comanda il nucleo radiomobile dei carabinieri, ad introdurre i primi particolari della vasta inchiesta “Chimera”, che ha permesso di scardinare i gangli del gruppo di mafia mazzarinese dei Sanfilippo. “L’indagine iniziò nel 2016 – ha detto in aula davanti al collegio penale del tribunale – a seguito della segnalazione di contributi pubblici ottenuti dai Sanfilippo”. Nel corso del suo esame testimoniale, il tenente ha tracciato le linee salienti di un gruppo di mafia “sempre coeso”, che fa ancora riferimento al boss Salvatore Sanfilippo, nonostante sia detenuto da decenni. “Ci sono poi altri due assetti – ha aggiunto – uno che fa capo a Marcello Sanfilippo, fratello di Salvatore Sanfilippo, e l’altro al figlio di Salvatore, Giuseppe Sanfilippo, che dal carcere riesce a controllare il traffico di droga”. Una concatenazione tutta fondata sui vincoli familiari. Sono pochi i collaboratori di giustizia. Il carabiniere ha spiegato inoltre che l’inchiesta è servita a riscontrare “l’assenza di collaborazione” da parte della cittadinanza. Il gruppo stiddaro dei Sanfilippo, da quanto emerso, riusciva a controllare le aree rurali così come le estorsioni agli esercenti e un altro asset era proprio quello del traffico di droga. Imprenditori agricoli ed esercenti dovevano comunque sottostare alla “legge” dei Sanfilippo, come risocntrato dai pm della Dda. Il militare dell’arma ha riferito che per sentire tante vittime dell’azione a tappeto degli stiddari fu necessario convocarli a Gela. Nessuno infatti volle farsi vedere nelle vicinanze della caserma di Mazzarino. Il timore di ritorsioni era all’ordine del giorno. “Una delle persone offese che convocammo – ha aggiunto – aveva talmente paura che le sue dichiarazioni potessero essere utilizzate, anche in un processo, al punto che minacciò di suicidarsi se le avessimo verbalizzate”. Per i Sanfilippo, secondo le ricostruzioni investigative, una delle basi più solide era quella rurale. Sarebbe stato praticamente impossibile opporsi al pascolo abusivo e alla volontà di estendere i loro possedimenti. I danneggiamenti nelle aree rurali sarebbero stati la conseguenza di vere ritorsioni organizzate dal gruppo, che non ammetteva alcuna insubordinazione. Nel corso del suo esame, il tenente Landolfi ha parlato di “ferocia” del clan davanti a qualsiasi eventuale ostacolo che poteva eventualmente frapporsi. Sono a processo Santa Sandra Aleruzzo, Bruno Berlinghieri, Giovanni Di Pasquale, Rosangela Farchica, Samuel Fontana, Vincenza Galati, Antonino Iannì, Dario Iannì, Vincenzo Iannì, Bartolomeo La Placa, Ilenia La Placa, Francesco Lo Cicero, Michele Mazzeo, Enza Medicea, Rosario Ridolfo Nicastro, Salvatore Ridolfo Nicastro, Andrea Sanfilippo, Calogero Sanfilippo (1991), Calogero Sanfilippo (1983), Calogero Sanfilippo (1976), Giuseppe Sanfilippo (1984), Giuseppe Sanfilippo (1979), Marcello Sanfilippo, Maria Sanfilippo, Marianna Sanfilippo, Marianna Sanfilippo (1985), Maurizio Sanfilippo, Girolamo Zuccalà e Ignazio Zuccalà.

Altri accusati hanno optato per riti alternativi. Tra gli imputati, c’è la gelese Valentina Maniscalco (difesa dall’avvocato Giacomo Ventura), ritenuta responsabile insieme al marito Emanuele Brancato (che ne risponde in un altro giudizio) di aver strutturato rapporti con i Sanfillippo per il traffico di droga. Per due omicidi, ricostruiti dai carabinieri e dai pm della Dda di Caltanissetta, saranno giudicati con l’abbreviato dal gup del tribunale nisseno sia Salvatore Sanfilippo (1963) che Beatrice Medicea (sono difesi dagli avvocati Flavio Sinatra e Agata Maira). Gli investigatori sono certi di aver fatto luce sulle morti di Benedetto Bonaffini e Luigi La Bella, che risalgono al periodo a cavallo tra anni ’80 e ’90. Parte civile nel giudizio è il Ministero dell’interno, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato (con il legale Giuseppe Laspina). Un altro testimone, che però è stato interessato da uno dei filoni di indagine, questa mattina si è avvalso della facoltà di non rispondere.

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