“Condannare i sodali di Alferi”, il boss si difende: “Non sono mafioso, mi volevano uccidere”

 
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Gela. Chiesta la conferma di tutte le condanne di primo grado già emesse ai danni dei presunti affiliati al gruppo retto dal boss Giuseppe Alferi. Condanne da confermare. La procura generale presso la corte d’appello di Caltanissetta, così, conferma le accuse confluite nel blitz “Inferis” e che, in primo grado, condussero a condanne per oltre cento anni di carcere. Il verdetto più pesante, diciotto anni e sei mesi di detenzione, venne pronunciato ai danni dello stesso Giuseppe Alferi. Stando al sostituto procuratore generale, gli unici sconti di pena devono essere pronunciati per Giuseppe Caci, Luigi Nardo e Gaetano Alferi. Il gruppo finito al centro dell’indagine, secondo i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, sarebbe responsabile di danneggiamenti, estorsioni, usura e, in sostanza, di aver gestito una parte consistente degli affari criminali in città.

“Ho subito sei attentati, non sono un mafioso”. Prima che la pubblica accusa, davanti alla corte presieduta dal giudice Sergio Nicastro, formulasse le richieste di condanna, è stato proprio Peppe Alferi a prendere la parola per alcune dichiarazioni spontanee. “Non sono mai stato un boss – ha spiegato in collegamento dal carcere di Viterbo dove è detenuto sotto regime di 41 bis – io ero contro i mafiosi. Lo ammetto, sono stato un malandrino ma mai un mafioso. Ho subito sei attentati perché non facevo parte di nessuna organizzazione. Gli altri imputati non erano affiliati a nessun gruppo, sono soltanto miei parenti o, comunque, ragazzi che mi aiutavano nella raccolta del ferro vecchio”. Una linea difensiva seguita anche dal suo legale di fiducia, l’avvocato Maurizio Scicolone. Dall’udienza già fissata per il prossimo 19 maggio, spetterà ai difensori degli imputati concludere nell’interesse dei propri assistiti.  

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